In Iran un uomo di 37 anni, Alireza M., rischia di rivivere la terrificante esperienza del patibolo.
Radio Vaticana - In Iran un uomo di 37 anni, Alireza M., rischia di rivivere la terrificante esperienza del patibolo. Dopo l’impiccagione, il suo corpo è stato trasferito in un obitorio. Qui i familiari si sono accorti che respirava ancora. Il giudice lo ha di nuovo condannato alla pena capitale. Diverse organizzazioni, tra cui Amnesty International, chiedono che non si proceda con la seconda esecuzione. Il servizio di Amedeo Lomonaco: ascolta
Il resoconto delle autorità iraniane sull’esecuzione è agghiacciante. L’uomo, condannato a morte per reati legati alla droga, vive con terrore e panico quelli che ritiene i suoi ultimi passi. Dopo essere salito sul patibolo, il suo corpo rimane sospeso in aria, con il cappio al collo, per 12 minuti. Il medico legale accerta il decesso ma il giorno successivo - il 10 ottobre, giorno in cui si celebra la Giornata mondiale contro la pena di morte – respira ancora. Viene soccorso e trasferito d’urgenza in ospedale. Ma la felicità dei familiari dura poco: per le autorità iraniane la sentenza del Tribunale rivoluzionario deve essere eseguita e il giudice stabilisce che si procederà ad una seconda impiccagione quando miglioreranno le condizioni di salute dell’uomo. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia:
“Sembra una vicenda uscita da un racconto dell’orrore. Le autorità giudiziarie iraniane si sono basate su una Fatwa del 2006, secondo la quale quando un’impiccagione non termina con la morte della persona condannata a tale pena è come se non avesse avuto luogo e quindi bisogna procedere nuovamente fino a quando non si ottiene a morte del condannato”.
Far conoscere questa vicenda all’opinione pubblica può risultare determinante?
“La notorietà di questa vicenda è già una possibilità in più, perché di fronte alla mobilitazione internazionale, alla notorietà che sta ricevendo questa vicenda è possibile che le autorità giudiziarie iraniane ci pensino due volte. In realtà, già all’interno dello stesso sistema giudiziario del Paese sono in corso discussioni: l’Ayatollah che emise la Fatwa nel 2006 ha fatto sapere che forse, su questo caso, non la pensa allo stesso modo. Può essere che la piega presa da questo caso riuscirà a salvare l’uomo. Resta il fatto che abbiamo già 508 esecuzioni nei primi nove mesi dell’anno e rischiamo di arrivare ad oltre 600, il che vorrebbe dire quasi due esecuzioni al giorno”.
In Iran la pena di morte è prevista per diversi reati, tra cui omicidio, blasfemia, spionaggio e traffico di droga, come nel caso dell’uomo sopravvissuto all’impiccagione:
“L’83% delle condanne a morte ogni anno riguardano reati legati al narcotraffico. Una strategia, quella del contrasto alla droga, che in Iran come altrove ha mostrato di essere del tutto inadeguata, perché purtroppo aumentano le condanne a morte per reati di droga ed aumentano anche il consumo ed il traffico di stupefacenti. Evidentemente, dal punto di vista del contrasto a questo crimine, la pena di morte non ha alcun deterrente. Poi, certamente, ci sono casi in cui il reato di droga camuffa qualcos’altro. C’è il reato di Moharebeh – che vuol dire essere nemici di Dio - un reato 'omnibus', che nella teocrazia iraniana può però comprendere anche comportamenti del tutto leciti, come l’opposizione politica, l’appartenenza ad una minoranza etnica, l’attivismo per i diritti umani, il giornalismo, l’attività studentesca, in un sindacato e tanto altro ancora”.
Il passaggio dalla presidenza di Ahmadinejad a quella di Rohani, accolto con rinnovata fiducia da gran parte della comunità internazionale, non ha portato – secondo Riccardo Noury - ad un miglioramento, in Iran, della situazione dei diritti umani:
“Il numero delle esecuzioni è aumentato dopo l’entrata in carica di Rohani. Dal punto di vista dei diritti umani la situazione non è cambiata: Rohani aveva anche proposto di ammorbidire le norme repressive sulla libertà di espressione. Ma questo non è successo. È vero che sono state rilasciate alcune decine di prigionieri di coscienza e politici alla vigilia dell’inizio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, alla quale Rohani è intervenuto. Però, questo incantesimo rischia di avere un effetto paradossale: che non si riescano più a fare campagne in difesa dei diritti umani in Iran, come se la Comunità internazionale si fosse convinta troppo presto che le cose stiano andando bene. Magari, la vicenda di questa doppia impiccagione potrà far ricredere qualcuno”.
L’Iran, dopo la Cina, ha il più alto tasso di esecuzioni nel mondo. Iran Human Rights denuncia che spesso le condanne a morte sono frutto di processi viziati, condotti senza le garanzie minime per l’imputato.
Radio Vaticana - In Iran un uomo di 37 anni, Alireza M., rischia di rivivere la terrificante esperienza del patibolo. Dopo l’impiccagione, il suo corpo è stato trasferito in un obitorio. Qui i familiari si sono accorti che respirava ancora. Il giudice lo ha di nuovo condannato alla pena capitale. Diverse organizzazioni, tra cui Amnesty International, chiedono che non si proceda con la seconda esecuzione. Il servizio di Amedeo Lomonaco: ascolta
Il resoconto delle autorità iraniane sull’esecuzione è agghiacciante. L’uomo, condannato a morte per reati legati alla droga, vive con terrore e panico quelli che ritiene i suoi ultimi passi. Dopo essere salito sul patibolo, il suo corpo rimane sospeso in aria, con il cappio al collo, per 12 minuti. Il medico legale accerta il decesso ma il giorno successivo - il 10 ottobre, giorno in cui si celebra la Giornata mondiale contro la pena di morte – respira ancora. Viene soccorso e trasferito d’urgenza in ospedale. Ma la felicità dei familiari dura poco: per le autorità iraniane la sentenza del Tribunale rivoluzionario deve essere eseguita e il giudice stabilisce che si procederà ad una seconda impiccagione quando miglioreranno le condizioni di salute dell’uomo. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia:
“Sembra una vicenda uscita da un racconto dell’orrore. Le autorità giudiziarie iraniane si sono basate su una Fatwa del 2006, secondo la quale quando un’impiccagione non termina con la morte della persona condannata a tale pena è come se non avesse avuto luogo e quindi bisogna procedere nuovamente fino a quando non si ottiene a morte del condannato”.
Far conoscere questa vicenda all’opinione pubblica può risultare determinante?
“La notorietà di questa vicenda è già una possibilità in più, perché di fronte alla mobilitazione internazionale, alla notorietà che sta ricevendo questa vicenda è possibile che le autorità giudiziarie iraniane ci pensino due volte. In realtà, già all’interno dello stesso sistema giudiziario del Paese sono in corso discussioni: l’Ayatollah che emise la Fatwa nel 2006 ha fatto sapere che forse, su questo caso, non la pensa allo stesso modo. Può essere che la piega presa da questo caso riuscirà a salvare l’uomo. Resta il fatto che abbiamo già 508 esecuzioni nei primi nove mesi dell’anno e rischiamo di arrivare ad oltre 600, il che vorrebbe dire quasi due esecuzioni al giorno”.
In Iran la pena di morte è prevista per diversi reati, tra cui omicidio, blasfemia, spionaggio e traffico di droga, come nel caso dell’uomo sopravvissuto all’impiccagione:
“L’83% delle condanne a morte ogni anno riguardano reati legati al narcotraffico. Una strategia, quella del contrasto alla droga, che in Iran come altrove ha mostrato di essere del tutto inadeguata, perché purtroppo aumentano le condanne a morte per reati di droga ed aumentano anche il consumo ed il traffico di stupefacenti. Evidentemente, dal punto di vista del contrasto a questo crimine, la pena di morte non ha alcun deterrente. Poi, certamente, ci sono casi in cui il reato di droga camuffa qualcos’altro. C’è il reato di Moharebeh – che vuol dire essere nemici di Dio - un reato 'omnibus', che nella teocrazia iraniana può però comprendere anche comportamenti del tutto leciti, come l’opposizione politica, l’appartenenza ad una minoranza etnica, l’attivismo per i diritti umani, il giornalismo, l’attività studentesca, in un sindacato e tanto altro ancora”.
Il passaggio dalla presidenza di Ahmadinejad a quella di Rohani, accolto con rinnovata fiducia da gran parte della comunità internazionale, non ha portato – secondo Riccardo Noury - ad un miglioramento, in Iran, della situazione dei diritti umani:
“Il numero delle esecuzioni è aumentato dopo l’entrata in carica di Rohani. Dal punto di vista dei diritti umani la situazione non è cambiata: Rohani aveva anche proposto di ammorbidire le norme repressive sulla libertà di espressione. Ma questo non è successo. È vero che sono state rilasciate alcune decine di prigionieri di coscienza e politici alla vigilia dell’inizio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, alla quale Rohani è intervenuto. Però, questo incantesimo rischia di avere un effetto paradossale: che non si riescano più a fare campagne in difesa dei diritti umani in Iran, come se la Comunità internazionale si fosse convinta troppo presto che le cose stiano andando bene. Magari, la vicenda di questa doppia impiccagione potrà far ricredere qualcuno”.
L’Iran, dopo la Cina, ha il più alto tasso di esecuzioni nel mondo. Iran Human Rights denuncia che spesso le condanne a morte sono frutto di processi viziati, condotti senza le garanzie minime per l’imputato.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.