Papa Francesco, il predicatore multitasking
No alla “sindrome di Giona” e alla “santità da tintoria”, sì ai cristiani che parlano “il linguaggio della misericordia, fatto di gesti ed atteggiamenti prima ancora che di parole”, raccomandava giusto ieri Francesco. Qualunque siano circostanze e relativi “toni” e “registri”, il Papa argentino sa puntar sempre dritto alla posta in gioco con semplicità e sapienza insieme. Dalle quotidiane omelie del mattino a casa santa Marta ai più solenni e formali discorsi pronunciati in occasioni come i vari incontri cui presenzia per ovvi motivi di ufficio, oppure le celebrazioni presiedute per particolari solennità del calendario liturgico e non solo.
Ieri, ad esempio, alle 12 in punto era atteso nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico per l’udienza ai cinquanta membri e consultori, tra ecclesiastici e laici, del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, riuniti in Vaticano nella periodica assemblea plenaria. E nel discorso loro rivolto, pure denso ed articolato com’era, è sembrato quasi di trovar sintetizzata la sua personale visione di Chiesa ed evangelizzazione già tratteggiata in decine e decine di interventi del primo semestre circa di pontificato. Vedi l’esortazione rivolta a tutti i cristiani a rendere “visibile” agli uomini di oggi “la misericordia di Dio”, a “percorrere vie nuove con coraggio”, a concentrare la pastorale sull’”essenziale”, Cristo, anziché disperdersi in mille rivoli secondari e superflui.
Ma accanto al magistero pontificio per così dire “ufficiale”, una novità del pontificato Bergoglio è l’istituzione di un nuovo magistero “ufficioso”, proveniente dalla “foresteria” dove ha preso dimora e ogni mattina celebra messa predicando con piglio disinvolto, ispirato e vigoroso come fosse un qualunque parroco dell’orbe cattolico.
La differenza è evidente nel trattamento accordato dall’apparato vaticano della comunicazione ai due differenti filoni di testi e materiali audio-video. Per il primo Sala stampa, Radio e Centro televisivo vaticani e Osservatore romano provvedono alla sistematica pubblicazione o trasmissione di ogni parola di sua Santità. Il secondo, al contrario, è affidato quotidianamente agli ampi ma pur sempre parziali resoconti di radio e giornale. Ma tante volte ha finito per oscurare il primo, complice pure una certa propensione di Bergoglio a dare il meglio di sé nell'informale improvvisare, come a Santa Marta è più naturale che si faccia.
Il bello di tutto questo, ad ogni modo, sta nel reciproco integrarsi dei due, ad un'attenta lettura; l'uno vale a dire "integra" l'altro, lo completa, ne raccoglie le risonanze e ne lancia a sua volta di nuove, anche quando il discorso si dipana a partire da spunti di riflessione diversi e lontani per argomento e circostanza.
Prendiamo il caso della messa di ieri, la sottile disamina della cosiddetta “sindrome di Giona”, quella di chi ha le idee chiare come il protagonista dell’ omonimo libro biblico veterotestamentario: “la dottrina è questa”, “si deve fare questo” e i peccatori “si arrangino, io me ne vado”, sono i virgolettati di Bergoglio fedelmente riportati da Radio vaticana. Giona è il profeta che dapprima respinge l’ordine del Signore di andare a predicare a Ninive ai pagani, poi trascorsi tre giorni nel ventre di una balena obbedisce. E quando quelle genti rinunciano alle loro malvagità, non sa capacitarsi della benevolenza con cui Dio rinuncia a punirli.
Ci sono cristiani, è il commento del Pontefice, che non vogliono la salvezza della povera gente, degli “ignoranti”, dei “peccatori”: “la sindrome di Giona non ha zelo per la conversione della gente, cerca una santità di ‘tintoria’, tutta bella, tutta ben fatta, ma senza quello zelo di andare a predicare il Signore”. E’ la sindrome del fariseo, altra annotazione, che prega ringraziando Dio di non essere peccatore come il pubblicano accanto a lui. “Quanti cristiani, quanti ce ne sono, pensano che saranno salvati solo per quello che fanno, per le loro opere”; le quali senza amore, senza misericordia a nulla valgono in realtà. Ma la sindrome di Giona “ha fiducia solo nella sua giustizia personale”.
Difficile deve essere per i sofferenti di questa “patologia” dello spirito cristiano, veniva da commentare poche ore dopo, dare gambe e fiato alla “nuova evangelizzazione” oggetto del successivo intervento del Papa, l’incontro col dicastero vaticano ad essa dedicato. E però “ogni cristiano è chiamato ad andare incontro agli altri, a dialogare con quelli che non la pensano come noi”, che hanno un’altra fede oppure nessuna. La Chiesa, predica ostinatamente Bergoglio, deve avere porte sempre aperte non solo per accogliere, ma anche per poterne uscire e portare fuori amore e speranza, “fino alle periferie dell’ umanità”. Ma per fare davvero questo, deve pure spogliarsi delle false sicurezze mondane che la appesantiscono e ne danneggiano il volto.
Il “nuovo evangelizzatore”, per chiosare le parole di sua Santità, di fronte all’allontanamento di tanta gente dalla Chiesa non ragiona in termini di “colpe”, né le scarica qua o là. Piuttosto si sforza di andare controcorrente, di convertire anzitutto se stesso dai propri idoli all’unico vero Dio, di parlare quel linguaggio della misericordia fatto in realtà di gesti ed atteggiamenti, prima ancora che parole. “C’è da chiedersi tutti se chi ci incontra percepisce nella nostra vita il calore della fede, vede nel nostro volto la gioia di aver incontrato Cristo”, è la domanda lasciata infine in sospeso aguzza e tagliente come una lama. Sicuramente farebbero bene a chiederselo tutti i Giona di oggi, gli ipocriti preoccupati più della dottrina, degli atteggiamenti, dei comandamenti, che non veramente della salvezza di tutti.
Che Francesco vada a ruota libera, nel chiuso della cappella della sua residenza, o che siano parole passate al vaglio di ponderate riflessioni, poco cambia insomma in ispirazione e risultato, per l’abile predicatore multitasking che è. Evangelizzare non è questione di belle “forme” perfette nel loro rigore: è questione di calda “sostanza” di amore misericordioso.
No alla “sindrome di Giona” e alla “santità da tintoria”, sì ai cristiani che parlano “il linguaggio della misericordia, fatto di gesti ed atteggiamenti prima ancora che di parole”, raccomandava giusto ieri Francesco. Qualunque siano circostanze e relativi “toni” e “registri”, il Papa argentino sa puntar sempre dritto alla posta in gioco con semplicità e sapienza insieme. Dalle quotidiane omelie del mattino a casa santa Marta ai più solenni e formali discorsi pronunciati in occasioni come i vari incontri cui presenzia per ovvi motivi di ufficio, oppure le celebrazioni presiedute per particolari solennità del calendario liturgico e non solo.
Ieri, ad esempio, alle 12 in punto era atteso nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico per l’udienza ai cinquanta membri e consultori, tra ecclesiastici e laici, del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, riuniti in Vaticano nella periodica assemblea plenaria. E nel discorso loro rivolto, pure denso ed articolato com’era, è sembrato quasi di trovar sintetizzata la sua personale visione di Chiesa ed evangelizzazione già tratteggiata in decine e decine di interventi del primo semestre circa di pontificato. Vedi l’esortazione rivolta a tutti i cristiani a rendere “visibile” agli uomini di oggi “la misericordia di Dio”, a “percorrere vie nuove con coraggio”, a concentrare la pastorale sull’”essenziale”, Cristo, anziché disperdersi in mille rivoli secondari e superflui.
Ma accanto al magistero pontificio per così dire “ufficiale”, una novità del pontificato Bergoglio è l’istituzione di un nuovo magistero “ufficioso”, proveniente dalla “foresteria” dove ha preso dimora e ogni mattina celebra messa predicando con piglio disinvolto, ispirato e vigoroso come fosse un qualunque parroco dell’orbe cattolico.
La differenza è evidente nel trattamento accordato dall’apparato vaticano della comunicazione ai due differenti filoni di testi e materiali audio-video. Per il primo Sala stampa, Radio e Centro televisivo vaticani e Osservatore romano provvedono alla sistematica pubblicazione o trasmissione di ogni parola di sua Santità. Il secondo, al contrario, è affidato quotidianamente agli ampi ma pur sempre parziali resoconti di radio e giornale. Ma tante volte ha finito per oscurare il primo, complice pure una certa propensione di Bergoglio a dare il meglio di sé nell'informale improvvisare, come a Santa Marta è più naturale che si faccia.
Il bello di tutto questo, ad ogni modo, sta nel reciproco integrarsi dei due, ad un'attenta lettura; l'uno vale a dire "integra" l'altro, lo completa, ne raccoglie le risonanze e ne lancia a sua volta di nuove, anche quando il discorso si dipana a partire da spunti di riflessione diversi e lontani per argomento e circostanza.
Prendiamo il caso della messa di ieri, la sottile disamina della cosiddetta “sindrome di Giona”, quella di chi ha le idee chiare come il protagonista dell’ omonimo libro biblico veterotestamentario: “la dottrina è questa”, “si deve fare questo” e i peccatori “si arrangino, io me ne vado”, sono i virgolettati di Bergoglio fedelmente riportati da Radio vaticana. Giona è il profeta che dapprima respinge l’ordine del Signore di andare a predicare a Ninive ai pagani, poi trascorsi tre giorni nel ventre di una balena obbedisce. E quando quelle genti rinunciano alle loro malvagità, non sa capacitarsi della benevolenza con cui Dio rinuncia a punirli.
Ci sono cristiani, è il commento del Pontefice, che non vogliono la salvezza della povera gente, degli “ignoranti”, dei “peccatori”: “la sindrome di Giona non ha zelo per la conversione della gente, cerca una santità di ‘tintoria’, tutta bella, tutta ben fatta, ma senza quello zelo di andare a predicare il Signore”. E’ la sindrome del fariseo, altra annotazione, che prega ringraziando Dio di non essere peccatore come il pubblicano accanto a lui. “Quanti cristiani, quanti ce ne sono, pensano che saranno salvati solo per quello che fanno, per le loro opere”; le quali senza amore, senza misericordia a nulla valgono in realtà. Ma la sindrome di Giona “ha fiducia solo nella sua giustizia personale”.
Difficile deve essere per i sofferenti di questa “patologia” dello spirito cristiano, veniva da commentare poche ore dopo, dare gambe e fiato alla “nuova evangelizzazione” oggetto del successivo intervento del Papa, l’incontro col dicastero vaticano ad essa dedicato. E però “ogni cristiano è chiamato ad andare incontro agli altri, a dialogare con quelli che non la pensano come noi”, che hanno un’altra fede oppure nessuna. La Chiesa, predica ostinatamente Bergoglio, deve avere porte sempre aperte non solo per accogliere, ma anche per poterne uscire e portare fuori amore e speranza, “fino alle periferie dell’ umanità”. Ma per fare davvero questo, deve pure spogliarsi delle false sicurezze mondane che la appesantiscono e ne danneggiano il volto.
Il “nuovo evangelizzatore”, per chiosare le parole di sua Santità, di fronte all’allontanamento di tanta gente dalla Chiesa non ragiona in termini di “colpe”, né le scarica qua o là. Piuttosto si sforza di andare controcorrente, di convertire anzitutto se stesso dai propri idoli all’unico vero Dio, di parlare quel linguaggio della misericordia fatto in realtà di gesti ed atteggiamenti, prima ancora che parole. “C’è da chiedersi tutti se chi ci incontra percepisce nella nostra vita il calore della fede, vede nel nostro volto la gioia di aver incontrato Cristo”, è la domanda lasciata infine in sospeso aguzza e tagliente come una lama. Sicuramente farebbero bene a chiederselo tutti i Giona di oggi, gli ipocriti preoccupati più della dottrina, degli atteggiamenti, dei comandamenti, che non veramente della salvezza di tutti.
Che Francesco vada a ruota libera, nel chiuso della cappella della sua residenza, o che siano parole passate al vaglio di ponderate riflessioni, poco cambia insomma in ispirazione e risultato, per l’abile predicatore multitasking che è. Evangelizzare non è questione di belle “forme” perfette nel loro rigore: è questione di calda “sostanza” di amore misericordioso.
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