Concludiamo il ciclo di articoli dell’Avvento dedicati alla donna con l’intervento di Simona Segoloni Ruta, della diocesi di Perugia-Città della Pieve, teologa docente all'Istituto teologico di Assisi per la cattedra di Ecclesiologia-Mariologia e per la cattedra di Trinitaria, ma anche moglie e madre di quattro figli
Si può parlare delle donne nella chiesa o della vocazione cristiana della donna approfondendo e godendosi le molte ricchezze che la tradizione cristiana e la vita della chiesa offrono a questo proposito, ma spesso, facendo così, ci si accontenta di quanto si è già compreso e non si attinge alla novità del Vangelo per spingersi in avanti, per andare verso il Regno, per ricevere dalle mani del Padre un dono sempre rinnovato. Da una parte accontentarsi è più facile, ci fa sentire che sappiamo già tutto e che dobbiamo solo applicare quanto abbiamo capito, d’altra parte però non si obbedisce alla logica della fede, che ci chiede invece sempre di seguire il Signore Gesù, che non ha luogo dove posare il capo e continuamente cammina nell’amore del Padre e sotto la guida dello Spirito. Inoltre non bisogna nascondersi, perché così non ameremmo realmente la chiesa ma solo le sicurezze che in essa cerchiamo, che il lungo cammino della chiesa nella storia non è stato sempre coerente nei confronti delle donne e non sempre queste sono state riconosciute come l’altro modo di essere umani, ma piuttosto sono state discriminate e considerate inferiori. Queste incoerenze portano spesso gli altri – e non solo gli altri – a rimproverare alla chiesa di oggi un certo maschilismo, infatti, se la stragrande maggioranza delle nostre assemblee e dei nostri servizi vengono svolti da donne, nessuna di loro – o quasi – si trova in posti decisionali o semplicemente autorevoli. Se possiamo usare l’immagine del corpo per descrivere la chiesa, sembrerebbe quasi che le membra siano tutte femminili e il capo, nonché il volto che viene rivolto verso gli altri, sia sempre e solo maschile.
Davanti a tali difficoltà, spesso ci viene da rifugiarci nella ricchezza della tradizione – ovviamente influenzata dal contesto storico e culturale in cui viene espressa – e cerchiamo di rispondere alle nostre incoerenze indicando come modello per le donne lo stile di vita di 50 o 100 anni fa, in cui le donne venivano di fatto definite dal loro impegno intradomestico e familiare. Tale reazione di istinto, che porta ad una sorta di idealizzazione della donna-angelo del focolare, è però solo una reazione difensiva e non è nutrita dallo spirito profetico che invece deve animare i credenti, capaci di scrutare la storia per cogliere i segni dei tempi nei quali lo Spirito opera e indica alla chiesa la direzione da prendere.
Non per niente, nella lettera enciclica Pacem in terris del 1963, papa Giovanni XXIII, che guardava alla storia con gli occhi della fede per cogliere in essa l’opera di Dio, riconobbe nell’ingresso della donna nella vita pubblica un segno dei tempi. Se infatti nel passato si era sempre pensato che le donne fossero per natura dedite all’ambito domestico – dimenticando che nella società pretecnologica curarsi della casa e della famiglia chiedeva molte competenze differenziate che oggi chiameremmo a tutti gli effetti professionali –, la società contemporanea si è accorta che le donne possono e devono dare il loro contributo nella vita pubblica, perché oramai l’ambito domestico non richiede più una dedizione a tempo pieno, visto che la produzione del cibo, dei vestiti, delle suppellettili, come anche l’istruzione dei figli, sono state professionalizzate. Si chiede alle donne dunque, ed esse lo fanno, di portare l’esperienza di lavoro, di cura, di competenza e di creatività, fuori dalle mura domestiche, per condividere con la società intera le risorse loro proprie. Questa nuova configurazione sociale per Giovanni XXIII non è una devianza dalla sana tradizione antica, ma un segno dei tempi, qualcosa che Dio opera nella storia per mostrare che l’umanità non è divisa in due specie separate, dedite a ruoli preconfezionati e distinti, ma da due volti reciprocamente rivolti che insieme costruiscono una società più umana.
Per togliere ogni dubbio a questo proposito Giovanni Paolo II scrive una lettera apostolica sulla donna, la Mulieris dignitatem (1988), dove dichiara senza mezzi termini che la donna non è in alcun modo inferiore all’uomo – e anche questa affermazione purtroppo non è sempre stata chiara per tutti i cristiani nel corso dei secoli – perché la pienezza della vocazione umana è la comunione con Dio e la donna può vivere questa comunione senza alcuna limitazione. Anzi, afferma il papa, nella storia della salvezza è stata una donna, Maria, a vivere questa comunione nel modo più pieno, diventando l’icona di ogni credente, modello nella fede e nella santità. Giovanni Paolo II insegna così che la piena dignità umana e cristiana della donna non consiste nei ruoli che storicamente la cultura le ha assegnato, ma nella sua fondamentale capacità di ascoltare la Parola di Dio, di rispondervi pienamente e di servirla in un discepolato fedele e radicale. Il papa va però ancora oltre e dichiara che lo stile di Cristo, il modo cioè in cui lui si è rapportato con le donne, guarendole, insegnando loro la fede, rendendole sue discepole e affidando loro l’annuncio della resurrezione, è il criterio di giudizio per tutto ciò che nella tradizione cristiana si è avuto successivamente: se qualcuno, compresi i testi biblici secondo il pontefice, non ha rispettato questo stile liberante e capace di riconoscere alla donna un pieno protagonismo nella vita della chiesa, non sta seguendo il Vangelo, ma una mentalità antica e quindi deve correggersi.
Torniamo a questo punto all’oggi della chiesa: viviamo davvero favorendo sempre e comunque il protagonismo ecclesiale delle donne? Oppure ancora pensiamo, secondo la mentalità antica non rinnovata dal Vangelo, che le donne vengano definite da un ruolo passivo, subordinato, relegato ad un ambito privato della vita? Riconosciamo come un segno dei tempi l’ingresso della donna nella vita pubblica ed ecclesiale e facciamo di tutto per favorirlo?
Non voglio rispondere certo io a queste domande, ma a mo’ di riflessione conclusiva, lascio a papa Francesco la parola: “Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella chiesa. Perché «il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo» e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali”(Evangelii gaudium, 103). Andiamo in questa direzione, allora, e con coraggio.
Si può parlare delle donne nella chiesa o della vocazione cristiana della donna approfondendo e godendosi le molte ricchezze che la tradizione cristiana e la vita della chiesa offrono a questo proposito, ma spesso, facendo così, ci si accontenta di quanto si è già compreso e non si attinge alla novità del Vangelo per spingersi in avanti, per andare verso il Regno, per ricevere dalle mani del Padre un dono sempre rinnovato. Da una parte accontentarsi è più facile, ci fa sentire che sappiamo già tutto e che dobbiamo solo applicare quanto abbiamo capito, d’altra parte però non si obbedisce alla logica della fede, che ci chiede invece sempre di seguire il Signore Gesù, che non ha luogo dove posare il capo e continuamente cammina nell’amore del Padre e sotto la guida dello Spirito. Inoltre non bisogna nascondersi, perché così non ameremmo realmente la chiesa ma solo le sicurezze che in essa cerchiamo, che il lungo cammino della chiesa nella storia non è stato sempre coerente nei confronti delle donne e non sempre queste sono state riconosciute come l’altro modo di essere umani, ma piuttosto sono state discriminate e considerate inferiori. Queste incoerenze portano spesso gli altri – e non solo gli altri – a rimproverare alla chiesa di oggi un certo maschilismo, infatti, se la stragrande maggioranza delle nostre assemblee e dei nostri servizi vengono svolti da donne, nessuna di loro – o quasi – si trova in posti decisionali o semplicemente autorevoli. Se possiamo usare l’immagine del corpo per descrivere la chiesa, sembrerebbe quasi che le membra siano tutte femminili e il capo, nonché il volto che viene rivolto verso gli altri, sia sempre e solo maschile.
Davanti a tali difficoltà, spesso ci viene da rifugiarci nella ricchezza della tradizione – ovviamente influenzata dal contesto storico e culturale in cui viene espressa – e cerchiamo di rispondere alle nostre incoerenze indicando come modello per le donne lo stile di vita di 50 o 100 anni fa, in cui le donne venivano di fatto definite dal loro impegno intradomestico e familiare. Tale reazione di istinto, che porta ad una sorta di idealizzazione della donna-angelo del focolare, è però solo una reazione difensiva e non è nutrita dallo spirito profetico che invece deve animare i credenti, capaci di scrutare la storia per cogliere i segni dei tempi nei quali lo Spirito opera e indica alla chiesa la direzione da prendere.
Non per niente, nella lettera enciclica Pacem in terris del 1963, papa Giovanni XXIII, che guardava alla storia con gli occhi della fede per cogliere in essa l’opera di Dio, riconobbe nell’ingresso della donna nella vita pubblica un segno dei tempi. Se infatti nel passato si era sempre pensato che le donne fossero per natura dedite all’ambito domestico – dimenticando che nella società pretecnologica curarsi della casa e della famiglia chiedeva molte competenze differenziate che oggi chiameremmo a tutti gli effetti professionali –, la società contemporanea si è accorta che le donne possono e devono dare il loro contributo nella vita pubblica, perché oramai l’ambito domestico non richiede più una dedizione a tempo pieno, visto che la produzione del cibo, dei vestiti, delle suppellettili, come anche l’istruzione dei figli, sono state professionalizzate. Si chiede alle donne dunque, ed esse lo fanno, di portare l’esperienza di lavoro, di cura, di competenza e di creatività, fuori dalle mura domestiche, per condividere con la società intera le risorse loro proprie. Questa nuova configurazione sociale per Giovanni XXIII non è una devianza dalla sana tradizione antica, ma un segno dei tempi, qualcosa che Dio opera nella storia per mostrare che l’umanità non è divisa in due specie separate, dedite a ruoli preconfezionati e distinti, ma da due volti reciprocamente rivolti che insieme costruiscono una società più umana.
Per togliere ogni dubbio a questo proposito Giovanni Paolo II scrive una lettera apostolica sulla donna, la Mulieris dignitatem (1988), dove dichiara senza mezzi termini che la donna non è in alcun modo inferiore all’uomo – e anche questa affermazione purtroppo non è sempre stata chiara per tutti i cristiani nel corso dei secoli – perché la pienezza della vocazione umana è la comunione con Dio e la donna può vivere questa comunione senza alcuna limitazione. Anzi, afferma il papa, nella storia della salvezza è stata una donna, Maria, a vivere questa comunione nel modo più pieno, diventando l’icona di ogni credente, modello nella fede e nella santità. Giovanni Paolo II insegna così che la piena dignità umana e cristiana della donna non consiste nei ruoli che storicamente la cultura le ha assegnato, ma nella sua fondamentale capacità di ascoltare la Parola di Dio, di rispondervi pienamente e di servirla in un discepolato fedele e radicale. Il papa va però ancora oltre e dichiara che lo stile di Cristo, il modo cioè in cui lui si è rapportato con le donne, guarendole, insegnando loro la fede, rendendole sue discepole e affidando loro l’annuncio della resurrezione, è il criterio di giudizio per tutto ciò che nella tradizione cristiana si è avuto successivamente: se qualcuno, compresi i testi biblici secondo il pontefice, non ha rispettato questo stile liberante e capace di riconoscere alla donna un pieno protagonismo nella vita della chiesa, non sta seguendo il Vangelo, ma una mentalità antica e quindi deve correggersi.
Torniamo a questo punto all’oggi della chiesa: viviamo davvero favorendo sempre e comunque il protagonismo ecclesiale delle donne? Oppure ancora pensiamo, secondo la mentalità antica non rinnovata dal Vangelo, che le donne vengano definite da un ruolo passivo, subordinato, relegato ad un ambito privato della vita? Riconosciamo come un segno dei tempi l’ingresso della donna nella vita pubblica ed ecclesiale e facciamo di tutto per favorirlo?
Non voglio rispondere certo io a queste domande, ma a mo’ di riflessione conclusiva, lascio a papa Francesco la parola: “Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella chiesa. Perché «il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo» e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali”(Evangelii gaudium, 103). Andiamo in questa direzione, allora, e con coraggio.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.