Sessismo linguistico e linguaggio di genere: quando il potere politico pretende di dettare legge in ambito grammaticale
Le amministrazioni nazionali e locali sono da alcuni anni impegnate nella lotta contro il “sessismo linguistico”: il cosiddetto “linguaggio di genere” è l’ultima frontiera dell’evoluzione linguistica o una forma linguistica artificiosa poco rispondente alle esigenze reali della comunità dei parlanti e delle stesse amministrazioni pubbliche?
I primi studi sul “sessismo linguistico” vengono condotti negli Stati Uniti e risalgono agli anni ’60-’70: appariva, infatti, ai ricercatori una profonda disparità tra uomini e donne nella rappresentazione linguistica, per lo più a danno di queste ultime. Negli stessi anni andava esplodendo non solo negli U.S.A. ma in tutti i principali Paesi occidentali la “seconda ondata” del femminismo, sicché gli studi sul sessismo linguistico inevitabilmente finivano con l’intrecciarsi con la lotta femminista per la piena parità tra i sessi. Prendeva altresì forma negli Stati Uniti il concetto di “gender” e la correlativa “cultura di genere”, propensa a contrapporre il “sesso” (quale caratteristica biologica pre-data) al “genere” (inteso quale insieme delle caratteristiche socio-culturali che si accompagnano all’appartenenza all’uno o all’altro sesso): una nozione, quella del “gender”, che ben presto dal terreno delle battaglie femministe si sarebbe trasferito in quello delle rivendicazioni dei cosiddetti “movimenti di liberazione gay”. Nella cornice della nuova “cultura di genere” si finiva pertanto col chiedere anche alla lingua di fare la sua parte nel riconoscere le “differenze di genere” e di impegnarsi per la costruzione dell’ “identità di genere”. A tal fine si rendeva necessario cominciare ad affermare la presenza delle donne attraverso un uso della lingua che, abbandonando vecchi stereotipi e stili linguistici ritenuti “sessisti”, le rendesse “visibili” già sul piano grammaticale, sì da agevolare la costruzione di una cultura di genere condivisa a livello sociale e istituzionale.
In Italia il primo studio organico sul sessismo linguistico si deve ad Alma Sabatini. Il suo lavoro, ormai divenuto un classico, dal titolo “Il sessismo nella lingua italiana” (1987), promosso dalla “Commissione nazionale della parità tra uomo e donna” costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituisce tuttora il fondamentale “riferimento” teorico cui si richiamano le iniziative pubbliche mirate ad eliminare la discriminazione sul piano del trattamento linguistico tra donne e uomini nel comparto della pubblica amministrazione. Ci si rende infatti conto che il modo più diretto ed efficace che il potere politico ha di influire sugli usi linguistici e grammaticali della popolazione è quello di intervenire sul linguaggio amministrativo-burocratico. Così, il Ministro per la funzione pubblica, recependo le sollecitazioni provenienti dall’Unione Europea, emana la Direttiva 23 maggio 2007 (“Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”) con la quale fa obbligo alle P.A. di “utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) un linguaggio non discriminatorio, come ad esempio usare il più possibile sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi (es., ‘persone’ anziché ‘uomini’, ‘lavoratori e lavoratrici’ anziché ‘lavoratori’)”. Nella stessa Direttiva, inoltre, ci si preoccupa di invitare le amministrazioni a “curare che la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale, contribuiscano allo sviluppo della cultura di genere”.
Nell’accogliere quest’invito, il Comitato Pari Opportunità del Comune di Firenze, da ultimo, ha intrapreso, in collaborazione con l’Accademia della Crusca, un ambizioso progetto, “Genere e linguaggio”, che ha visto la presentazione nel maggio del 2012 delle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” a cura della professoressa e linguista Cecilia Robustelli. La prof.ssa Robustelli riprende nelle “Linee guida” alcune delle principali indicazioni suggerite a suo tempo dalla Sabatini per costringere i pubblici funzionari ad utilizzare un linguaggio non discriminatorio (ossia, nell’accezione “gender”, un linguaggio rispettoso dell’identità di genere). Gli strumenti all’uopo necessari sono fondamentalmente due: 1) evitare per quanto possibile il “maschile inclusivo”, ossia un uso “neutrale” del genere maschile, comprensivo tanto dei maschi quanto delle femmine (es., gli “uomini” per indicare genericamente gli “esseri umani” dell’uno e dell’altro sesso); 2) usare in riferimento alle donne sempre sostantivi di genere femminile per indicare cariche e professioni, anche se sconosciuti o poco usati nel linguaggio comune (es., “ministra” in luogo di “ministro”, “prefetta” invece di “prefetto”, “notaia” invece di “notaio”, “assessora” invece di “assessore”, “sindaca” invece di “sindaco” e così via, se sono delle donne a ricoprire le rispettive cariche). In tal modo, sostengono le teoriche del “femminismo linguistico”, si darà alle donne la stessa “visibilità” degli uomini sul piano linguistico e si favorirà sul piano sociale l’accettazione delle stesse in professioni e ruoli istituzionali che per troppo tempo sono state di esclusivo appannaggio degli uomini. Vengono quindi esposte le tecniche grammaticali utilizzabili per evitare il tanto “discriminatorio” maschile inclusivo. Una prima tecnica è quella della simmetria, che impone di specificare di volta in volta la presenza del genere maschile e di quello femminile, con duplicazione di desinenze e articoli, allorché si indica una data collettività: per cui, ad esempio, sarebbe meglio scrivere in un documento amministrativo “i/le cittadini/e” invece che semplicemente “i cittadini”). In alternativa si può utilizzare la tecnica dell’oscuramento, ossia quella volta ad “occultare” entrambi i generi attraverso l’uso della forma passiva o impersonale o di nomi collettivi “asessuati” del tipo “personale docente/discente” (in luogo di “insegnanti/discenti”) o attraverso parole prive di referenza di genere (ad es., “persona” invece di “uomo”).
Che dire di siffatte “proposte” linguistiche? Con riferimento al maschile “inclusivo” e alle strategie linguistiche volte ad evitarne l’utilizzo vanno fatte innanzitutto le seguenti considerazioni di ordine grammaticale. La tecnica della simmetria, proprio perché conduce ad una (molto spesso inutile e ridondante) duplicazione dei termini e degli articoli, appesantisce notevolmente il testo e, se usata in maniera indiscriminata e meccanica, rischia di renderlo poco chiaro se non addirittura illeggibile. La lingua, come si sa, tende alla massima semplificazione ed economia, come prerequisito per la chiarezza e comprensibilità del discorso linguistico, scritto e orale. Questa esigenza, avvertita già nel linguaggio comune (da questo punto di vista il maschile inclusivo è nient’altro che una strategia di semplificazione linguistica), dovrebbe essere a maggior ragione recepita nel linguaggio burocratico, non fosse altro per i ben noti criteri di efficacia, efficienza ed economicità che dovrebbero regolare il funzionamento di una amministrazione ideale. Ma chiediamoci ancora: la tecnica della simmetria è davvero più “neutrale” rispetto al maschile inclusivo? Tale tecnica, a dire il vero, proprio perché consente di preporre un genere grammaticale all’altro, viene sovente utilizzata in maniera retorica per sottolineare la priorità o la maggiore importanza di un sesso rispetto all’altro in barba alla sua ritenuta assoluta neutralità (pensiamo al consueto saluto “telespettatrici e telespettatori” di Lilli Gruber). Quanto alla tecnica dell’oscuramento, invece, bisogna prestare molta attenzione al piano semantico: sarei cauto nel suggerire ad esempio in termini generali l’uso della parola “persona” rispetto al maschile generico “uomo”, poiché le due parole – a ben vedere – possono esprimere concetti diversi (“persona” è termine pregno di significato filosofico e talora può assumere connotazioni di carattere religioso e ideologico, mentre “uomo” sul piano semantico è più neutrale). Il “linguaggio di genere” (che secondo le direttive ministeriali dovrebbe essere assunto a modello del linguaggio amministrativo), per quanto possa risultare “politicamente corretto” agli orecchi di un pubblico sempre più sensibile alla “cultura di genere”, rischia di condurre ad un impoverimento linguistico generale e ad esiti di scarsa chiarezza e leggibilità dei testi.
Quanto al suggerimento di usare in riferimento alle attività professionali e alle cariche istituzionali coperte da donne sempre e comunque nomi di genere femminile, se necessario inventandoli di sana pianta qualora non esistano (o siano in desuetudine) nel linguaggio comune, va denunciata con vigore l’arbitrarietà di una simile operazione, che muove dal presupposto, tutt’altro che scontato, per cui il genere grammaticale debba essere congruente col genere biologico della persona considerata. In realtà non è così, come una analisi linguistica, anche superficiale, permette di evidenziare: perché se da un lato è vero che professioni e attività tradizionalmente svolte dagli uomini vengono tuttora comunemente designate tramite sostantivi maschili pur se esercitate in concreto da donne, è altrettanto vero che vi sono attività che, pur svolte da sempre in prevalenza da uomini, vengono indicate con sostantivi di genere femminile. Si pensi a nomi come “la guardia”, “la recluta”, “la sentinella”: sono sempre femminili anche se riferiti ad uomini! D’altro canto le professioni – e a maggior ragione i ruoli istituzionali – non hanno sesso, per cui l’attribuzione di un genere grammaticale piuttosto che un altro è frutto di una convenzione linguistica. Ora, non v’è dubbio che gli usi linguistici possano col tempo cambiare (e di fatto con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro sono sorte nuove parole di genere femminile accanto al lemma precedentemente declinato solo al maschile: ad es., “maestra” accanto a “maestro”, per non parlare di “professoressa”, “dottoressa”, “senatrice”, “deputata”). Il linguaggio presenta invero una grande capacità di adeguamento e di flessibilità. Quel che non va è che simili mutamenti linguistici siano indotti o imposti in maniera autoritaria dal potere politico per ragioni ideologiche, oggi in ossequio alla “cultura del genere” e domani chissà…
di Bartolo Salone
I primi studi sul “sessismo linguistico” vengono condotti negli Stati Uniti e risalgono agli anni ’60-’70: appariva, infatti, ai ricercatori una profonda disparità tra uomini e donne nella rappresentazione linguistica, per lo più a danno di queste ultime. Negli stessi anni andava esplodendo non solo negli U.S.A. ma in tutti i principali Paesi occidentali la “seconda ondata” del femminismo, sicché gli studi sul sessismo linguistico inevitabilmente finivano con l’intrecciarsi con la lotta femminista per la piena parità tra i sessi. Prendeva altresì forma negli Stati Uniti il concetto di “gender” e la correlativa “cultura di genere”, propensa a contrapporre il “sesso” (quale caratteristica biologica pre-data) al “genere” (inteso quale insieme delle caratteristiche socio-culturali che si accompagnano all’appartenenza all’uno o all’altro sesso): una nozione, quella del “gender”, che ben presto dal terreno delle battaglie femministe si sarebbe trasferito in quello delle rivendicazioni dei cosiddetti “movimenti di liberazione gay”. Nella cornice della nuova “cultura di genere” si finiva pertanto col chiedere anche alla lingua di fare la sua parte nel riconoscere le “differenze di genere” e di impegnarsi per la costruzione dell’ “identità di genere”. A tal fine si rendeva necessario cominciare ad affermare la presenza delle donne attraverso un uso della lingua che, abbandonando vecchi stereotipi e stili linguistici ritenuti “sessisti”, le rendesse “visibili” già sul piano grammaticale, sì da agevolare la costruzione di una cultura di genere condivisa a livello sociale e istituzionale.
In Italia il primo studio organico sul sessismo linguistico si deve ad Alma Sabatini. Il suo lavoro, ormai divenuto un classico, dal titolo “Il sessismo nella lingua italiana” (1987), promosso dalla “Commissione nazionale della parità tra uomo e donna” costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituisce tuttora il fondamentale “riferimento” teorico cui si richiamano le iniziative pubbliche mirate ad eliminare la discriminazione sul piano del trattamento linguistico tra donne e uomini nel comparto della pubblica amministrazione. Ci si rende infatti conto che il modo più diretto ed efficace che il potere politico ha di influire sugli usi linguistici e grammaticali della popolazione è quello di intervenire sul linguaggio amministrativo-burocratico. Così, il Ministro per la funzione pubblica, recependo le sollecitazioni provenienti dall’Unione Europea, emana la Direttiva 23 maggio 2007 (“Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”) con la quale fa obbligo alle P.A. di “utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) un linguaggio non discriminatorio, come ad esempio usare il più possibile sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi (es., ‘persone’ anziché ‘uomini’, ‘lavoratori e lavoratrici’ anziché ‘lavoratori’)”. Nella stessa Direttiva, inoltre, ci si preoccupa di invitare le amministrazioni a “curare che la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale, contribuiscano allo sviluppo della cultura di genere”.
Nell’accogliere quest’invito, il Comitato Pari Opportunità del Comune di Firenze, da ultimo, ha intrapreso, in collaborazione con l’Accademia della Crusca, un ambizioso progetto, “Genere e linguaggio”, che ha visto la presentazione nel maggio del 2012 delle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” a cura della professoressa e linguista Cecilia Robustelli. La prof.ssa Robustelli riprende nelle “Linee guida” alcune delle principali indicazioni suggerite a suo tempo dalla Sabatini per costringere i pubblici funzionari ad utilizzare un linguaggio non discriminatorio (ossia, nell’accezione “gender”, un linguaggio rispettoso dell’identità di genere). Gli strumenti all’uopo necessari sono fondamentalmente due: 1) evitare per quanto possibile il “maschile inclusivo”, ossia un uso “neutrale” del genere maschile, comprensivo tanto dei maschi quanto delle femmine (es., gli “uomini” per indicare genericamente gli “esseri umani” dell’uno e dell’altro sesso); 2) usare in riferimento alle donne sempre sostantivi di genere femminile per indicare cariche e professioni, anche se sconosciuti o poco usati nel linguaggio comune (es., “ministra” in luogo di “ministro”, “prefetta” invece di “prefetto”, “notaia” invece di “notaio”, “assessora” invece di “assessore”, “sindaca” invece di “sindaco” e così via, se sono delle donne a ricoprire le rispettive cariche). In tal modo, sostengono le teoriche del “femminismo linguistico”, si darà alle donne la stessa “visibilità” degli uomini sul piano linguistico e si favorirà sul piano sociale l’accettazione delle stesse in professioni e ruoli istituzionali che per troppo tempo sono state di esclusivo appannaggio degli uomini. Vengono quindi esposte le tecniche grammaticali utilizzabili per evitare il tanto “discriminatorio” maschile inclusivo. Una prima tecnica è quella della simmetria, che impone di specificare di volta in volta la presenza del genere maschile e di quello femminile, con duplicazione di desinenze e articoli, allorché si indica una data collettività: per cui, ad esempio, sarebbe meglio scrivere in un documento amministrativo “i/le cittadini/e” invece che semplicemente “i cittadini”). In alternativa si può utilizzare la tecnica dell’oscuramento, ossia quella volta ad “occultare” entrambi i generi attraverso l’uso della forma passiva o impersonale o di nomi collettivi “asessuati” del tipo “personale docente/discente” (in luogo di “insegnanti/discenti”) o attraverso parole prive di referenza di genere (ad es., “persona” invece di “uomo”).
Che dire di siffatte “proposte” linguistiche? Con riferimento al maschile “inclusivo” e alle strategie linguistiche volte ad evitarne l’utilizzo vanno fatte innanzitutto le seguenti considerazioni di ordine grammaticale. La tecnica della simmetria, proprio perché conduce ad una (molto spesso inutile e ridondante) duplicazione dei termini e degli articoli, appesantisce notevolmente il testo e, se usata in maniera indiscriminata e meccanica, rischia di renderlo poco chiaro se non addirittura illeggibile. La lingua, come si sa, tende alla massima semplificazione ed economia, come prerequisito per la chiarezza e comprensibilità del discorso linguistico, scritto e orale. Questa esigenza, avvertita già nel linguaggio comune (da questo punto di vista il maschile inclusivo è nient’altro che una strategia di semplificazione linguistica), dovrebbe essere a maggior ragione recepita nel linguaggio burocratico, non fosse altro per i ben noti criteri di efficacia, efficienza ed economicità che dovrebbero regolare il funzionamento di una amministrazione ideale. Ma chiediamoci ancora: la tecnica della simmetria è davvero più “neutrale” rispetto al maschile inclusivo? Tale tecnica, a dire il vero, proprio perché consente di preporre un genere grammaticale all’altro, viene sovente utilizzata in maniera retorica per sottolineare la priorità o la maggiore importanza di un sesso rispetto all’altro in barba alla sua ritenuta assoluta neutralità (pensiamo al consueto saluto “telespettatrici e telespettatori” di Lilli Gruber). Quanto alla tecnica dell’oscuramento, invece, bisogna prestare molta attenzione al piano semantico: sarei cauto nel suggerire ad esempio in termini generali l’uso della parola “persona” rispetto al maschile generico “uomo”, poiché le due parole – a ben vedere – possono esprimere concetti diversi (“persona” è termine pregno di significato filosofico e talora può assumere connotazioni di carattere religioso e ideologico, mentre “uomo” sul piano semantico è più neutrale). Il “linguaggio di genere” (che secondo le direttive ministeriali dovrebbe essere assunto a modello del linguaggio amministrativo), per quanto possa risultare “politicamente corretto” agli orecchi di un pubblico sempre più sensibile alla “cultura di genere”, rischia di condurre ad un impoverimento linguistico generale e ad esiti di scarsa chiarezza e leggibilità dei testi.
Quanto al suggerimento di usare in riferimento alle attività professionali e alle cariche istituzionali coperte da donne sempre e comunque nomi di genere femminile, se necessario inventandoli di sana pianta qualora non esistano (o siano in desuetudine) nel linguaggio comune, va denunciata con vigore l’arbitrarietà di una simile operazione, che muove dal presupposto, tutt’altro che scontato, per cui il genere grammaticale debba essere congruente col genere biologico della persona considerata. In realtà non è così, come una analisi linguistica, anche superficiale, permette di evidenziare: perché se da un lato è vero che professioni e attività tradizionalmente svolte dagli uomini vengono tuttora comunemente designate tramite sostantivi maschili pur se esercitate in concreto da donne, è altrettanto vero che vi sono attività che, pur svolte da sempre in prevalenza da uomini, vengono indicate con sostantivi di genere femminile. Si pensi a nomi come “la guardia”, “la recluta”, “la sentinella”: sono sempre femminili anche se riferiti ad uomini! D’altro canto le professioni – e a maggior ragione i ruoli istituzionali – non hanno sesso, per cui l’attribuzione di un genere grammaticale piuttosto che un altro è frutto di una convenzione linguistica. Ora, non v’è dubbio che gli usi linguistici possano col tempo cambiare (e di fatto con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro sono sorte nuove parole di genere femminile accanto al lemma precedentemente declinato solo al maschile: ad es., “maestra” accanto a “maestro”, per non parlare di “professoressa”, “dottoressa”, “senatrice”, “deputata”). Il linguaggio presenta invero una grande capacità di adeguamento e di flessibilità. Quel che non va è che simili mutamenti linguistici siano indotti o imposti in maniera autoritaria dal potere politico per ragioni ideologiche, oggi in ossequio alla “cultura del genere” e domani chissà…
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