sabato, dicembre 21, 2013
Geshe Ngawang Jamyang, religioso e insegnante molto amato dalla sua comunità, era stato arrestato il 23 novembre a Lhasa. Il suo cadavere, con evidenti segni di violenza, è stato riconsegnato alla famiglia da alcuni agenti che hanno minacciato di morte i familiari per farli tacere. 

Lhasa (AsiaNews) - La polizia cinese ha picchiato a morte in carcere un monaco buddista tibetano, arrestato un mese fa insieme a due amici mentre si trovava in vacanza a Lhasa, capitale provinciale. Il monaco, Geshe Ngawang Jamyang, era molto popolare tra i religiosi locali: aveva insegnato per molti anni in un monastero indiano prima di tornare in Tibet, dove aveva accettato l'incarico di docente presso il monastero Tarmoe di Nagchu, nella contea di Diru. Proprio questa zona è nota per essere stata il centro di una campagna di resistenza contro le nuove norme sulla "lealtà allo Stato" imposta da Pechino.

Gli agenti della pubblica sicurezza hanno arrestato Jamyang lo scorso 23 novembre. Da allora di lui non si erano avute più notizie fino a quando, il 17 dicembre, la polizia non ha consegnato il suo cadavere alla famiglia. Ngawang Tharpa, tibetano che vive in India ma che mantiene i contatti con la contea (da cui proviene), dice a Radio Free Asia: "E' stato picchiato a morte. Quando i poliziotti hanno reso il suo corpo, hanno avvertito i familiari di non dire nulla dell'accaduto. In caso contrario, sarebbero stati uccisi". Nessuna notizia fino ad ora dei due compagni arrestati con Jamyang.

Secondo il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, è "evidente che il monaco è stato picchiato a morte mentre si trovava in un carcere segreto. Era un uomo robusto e in buona salute quando ha lasciato il suo monastero per visitare Lhasa". Secondo alcune fonti, sul suo cadavere erano "lampanti" i segni del pestaggio avvenuto in carcere.

Nato nel 1968 nella contea di Diru, Geshe Jamyang entra in monastero nel 1987: due anni dopo si sposta in India, dove prosegue i suoi studi religiosi per 19 anni. Nel 2007 torna in Tibet per cercare di propagare il buddismo e la cultura tibetana nella sua regione d'origine. Nel 2008 viene condannato a due anni di carcere con l'accusa di "mantenere contatti con l'estero", ma viene liberato senza concludere la detenzione per buona condotta. Riprende il suo lavoro religioso, "molto rispettato" dalla comunità locale, fino all'arresto di novembre.


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