Un ambiente naturale richiama immediatamente a un anelito religioso, ma la città, può essere un luogo in cui vivere la dimensione spirituale? E come? Può essere luogo teologico e rivelare il volto di Dio e dell’uomo?
Sono alcune delle domande poste in una serie di incontri organizzati a Milano nella Quaresima del 2012 dai Centri Culturali Ambrosianeum, la Corsia dei Servi, San Fedele, affidando le riflessioni ad alcuni tra i più interessanti e autorevoli voci del panorama italiano: Enzo Bianchi, Marco Garzonio, Ernesto Olivero, Ermes Ronchi, Luigi Verdi e Rosanna Virgili. Gli interventi sono stati poi raccolti per Edizioni Paoline nel libro “Città amata e temuta”, la cui pubblicazione è stata curata da padre Ermes Ronchi con l’introduzione di un articolo di padre David Maria Turoldo, pubblicato nel n. 39 della rivista “L’uomo” del 15 luglio 1946 dal titolo “Rapsodia della mia città”.
Il brano della Genesi che narra della Torre di Babele (Gen 11, 1-9) è il testo da cui prende avvio la riflessione di Luigi Verde. “Ma dov’è l’errore di Babele?” si domanda don Luigi. Prima di tutto la mancanza di misericordia, quindi l’autoesaltazione e il voler “dominare la storia per virtù e magia.” Dopo aver riflettuto sull’immagine di Babele, don Luigi Verde si sofferma sull’altra immagine di città che Dio ci dà come riferimento: Gerusalemme. “Il nome di Gerusalemme, un composto di pace e visione. (…) Tutti noi dobbiamo forse tornare a essere visione, promessa per le nostre città. Perché Gerusalemme è un mistero da sempre, rappresenta una provocazione, quella di come far vivere insieme culture diverse, religioni diverse, pur con mille fatiche.” L’unico modo oggi per vivere in città è quello di tornare ad essere ‘monaci nella città’, intendendo per monaco non l’essere isolato ma da monachòs, l’essere unificato: “significa che la mente, il corpo e l’anima sono uniti, vuol dire che io divento segno di unificazione. Tre cose dobbiamo recuperare, se vogliamo, ognuno di noi, diventare monaco nella città, unificatore di questa nostra città”, l’ascolto, la sensibilità e il respiro. Condizione indispensabile per l’ascolto è il deserto: “il deserto è là dove finiscono le nostre parole e si arriva, attraverso il silenzio, al nocciolo della vita, al nocciolo delle persone. (…) Ascoltare: non è sufficiente sentire, dobbiamo tornare ad ascoltare al di là delle parole.”
Partendo dalle parole del Cantico dei Cantici (Ct 5, 5-16) Rosanna Virgili ci introduce nella dimensione relazionale della città, così difficile da vivere in uno spazio e in una realtà grande e articolata che rischia di lasciarci nella solitudine. Perché la città è un luogo che non offre legami: “non li offre, non li impone, ma neanche li indica: te li devi creare. (…) Sta a te creare rapporti e legami.” Nella Bibbia, sottolinea Rosanna Virgili, la città era il luogo della gioia, della comunione, della condivisione e rimanerne fuori era sinonimo di solitudine e le parole del Cantico dei Cantici possono guidarci in una riflessione “su questa nostra solitudine cittadina e sulla ricerca che ci urge, che sentiamo di dover fare verso i legami e verso Dio, verso le relazioni, verso noi stessi e verso l’altro.” Quasi un ‘viaggio nell’antropologia’ quello che propone Rosanna Virgili attraverso le parole del Cantico in cui ascoltare tutto ciò che viene da dentro. “E da dentro viene, prima di tutto, un desiderio di abbraccio. La parola magica è abbraccio. Ma chi mi abbraccia? Da chi farsi abbracciare? Senza abbraccio non c’è creatura nuova, mentre io ho bisogno di diventare creatura nuova; la solitudine è per me una sospensione che non mi dà la possibilità di farcela, di resistere.” Poiché la solitudine non permette di aprire i cinque sensi, è importante vivere tutti i sensi: l’ascolto, la vista, l’olfatto, il gusto e il tatto. “Abbiamo bisogno di un Dio che ci parli, che ritessa i nostri legami, che venga a noi utilizzando i canali dei cinque sensi. Un Dio che abbia sapori, che abbia colori, che abbia il gusto della relazione e quindi delle diversità.”
Enzo Bianchi, attraverso il brano della Genesi che narra del profeta Giona (Gen. 3, 1-5. 10; 4, 1-11) sottolinea come Dio abbia consegnato all’uomo all’inizio della storia un giardino e alla fine nell’Apocalisse, Dio consegna una città, la nuova Gerusalemme. Nella città il male si fa più evidente; è però sempre la città che permette la socialità, la solidarietà e la communitas.
Riprendendo poi un brano della Lettera Diogneto, Enzo Bianchi ricorda come i cristiani sono fedeli alla terra, alla città, anche quando essa è loro nemica. “Sono pienamente solidali con gli uomini in mezzo ai quali vivono; sono sempre impegnati nel cammino di umanizzazione che riguarda tutti. È la vocazione cristiana che richiede ai cristiani la capacità di essere profeti per la città, inviati alla città per portarle il Vangelo, per recarle l’annuncio della pace, per servire l’umanità.” Prosegue però lasciandoci un interrogativo: “ma i cristiani sono capaci di vivere questa missione? Sanno mostrare la ‘differenza cristiana’ tra gli uomini? Sanno costruire la città insieme agli altri, senza per questo abdicare alla loro fede e alle istanze evangeliche che li abitano? E con quale stile, con quali sentimenti i cristiani abitano la città e vivono in essa da discepoli di Gesù Cristo?”
Il rapporto tra il cristiano e la città è il punto di partenza per la riflessione di Marco Garzonio, prendendo spunto dalle parole di Genesi su Sodoma e Gomorra (Gen. 18, 2 –28. 32). Dopo aver precisato alcune caratteristiche del rapporto tra uomo e Dio come ad esempio la confidenza che può instaurarsi in questo rapporto; la consapevolezza che il Signore mantiene sempre le sue promesse; avere ben chiaro il nesso profondo tra fede e giustizia o la certezza che l’intervento di Dio nella storia agisca sempre per la salvezza dell’uomo, Marco Garzonio ricorda come la sequela di Cristo “è la proposta di via spirituale e insieme psicologica che l’individuo normale ha di fronte. Se la segue, procede alla ricerca di sé, del senso della vita, del ruolo da giocare nel consorzio civile, dentro la città, per la città, per i fratelli, per le strutture che garantiscano una convivenza accettabile.” Propone infine di vivere le ‘virtù metropolitane’ e cioè ‘essere seme’, ‘essere piccolo gregge’ ed ‘essere sentinella’, disponendosi in atteggiamento orante perché “la preghiera può salvare la città.” Infatti, “per Dio tutto è possibile, se lo vogliamo. Lui aspetta. A decidere se seguirlo o meno, se vale la pena di far parte di quei dieci giusti grazie ai quali il Signore è pronto a non colpire Sodoma e i suoi abitanti, siamo noi, a nome nostro e – ricordiamolo sempre – a nome della città intera, di tutti.” Al termine di questo viaggio attraverso le riflessioni sulla città proposte con il libro “Città amata e temuta”, ci piace concludere con le parole di Garzonio che rappresentano sia un auspicio che un impegno da vivere: “Andrebbe chiesto il dono di uomini e di donne, persone semplici e di ordinaria umanità, che nella città, all’unisono con i loro pastori, costituiscano quel popolo di Dio in cammino preconizzato dal concilio Vaticano II.”
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Sono alcune delle domande poste in una serie di incontri organizzati a Milano nella Quaresima del 2012 dai Centri Culturali Ambrosianeum, la Corsia dei Servi, San Fedele, affidando le riflessioni ad alcuni tra i più interessanti e autorevoli voci del panorama italiano: Enzo Bianchi, Marco Garzonio, Ernesto Olivero, Ermes Ronchi, Luigi Verdi e Rosanna Virgili. Gli interventi sono stati poi raccolti per Edizioni Paoline nel libro “Città amata e temuta”, la cui pubblicazione è stata curata da padre Ermes Ronchi con l’introduzione di un articolo di padre David Maria Turoldo, pubblicato nel n. 39 della rivista “L’uomo” del 15 luglio 1946 dal titolo “Rapsodia della mia città”.
Il brano della Genesi che narra della Torre di Babele (Gen 11, 1-9) è il testo da cui prende avvio la riflessione di Luigi Verde. “Ma dov’è l’errore di Babele?” si domanda don Luigi. Prima di tutto la mancanza di misericordia, quindi l’autoesaltazione e il voler “dominare la storia per virtù e magia.” Dopo aver riflettuto sull’immagine di Babele, don Luigi Verde si sofferma sull’altra immagine di città che Dio ci dà come riferimento: Gerusalemme. “Il nome di Gerusalemme, un composto di pace e visione. (…) Tutti noi dobbiamo forse tornare a essere visione, promessa per le nostre città. Perché Gerusalemme è un mistero da sempre, rappresenta una provocazione, quella di come far vivere insieme culture diverse, religioni diverse, pur con mille fatiche.” L’unico modo oggi per vivere in città è quello di tornare ad essere ‘monaci nella città’, intendendo per monaco non l’essere isolato ma da monachòs, l’essere unificato: “significa che la mente, il corpo e l’anima sono uniti, vuol dire che io divento segno di unificazione. Tre cose dobbiamo recuperare, se vogliamo, ognuno di noi, diventare monaco nella città, unificatore di questa nostra città”, l’ascolto, la sensibilità e il respiro. Condizione indispensabile per l’ascolto è il deserto: “il deserto è là dove finiscono le nostre parole e si arriva, attraverso il silenzio, al nocciolo della vita, al nocciolo delle persone. (…) Ascoltare: non è sufficiente sentire, dobbiamo tornare ad ascoltare al di là delle parole.”
Partendo dalle parole del Cantico dei Cantici (Ct 5, 5-16) Rosanna Virgili ci introduce nella dimensione relazionale della città, così difficile da vivere in uno spazio e in una realtà grande e articolata che rischia di lasciarci nella solitudine. Perché la città è un luogo che non offre legami: “non li offre, non li impone, ma neanche li indica: te li devi creare. (…) Sta a te creare rapporti e legami.” Nella Bibbia, sottolinea Rosanna Virgili, la città era il luogo della gioia, della comunione, della condivisione e rimanerne fuori era sinonimo di solitudine e le parole del Cantico dei Cantici possono guidarci in una riflessione “su questa nostra solitudine cittadina e sulla ricerca che ci urge, che sentiamo di dover fare verso i legami e verso Dio, verso le relazioni, verso noi stessi e verso l’altro.” Quasi un ‘viaggio nell’antropologia’ quello che propone Rosanna Virgili attraverso le parole del Cantico in cui ascoltare tutto ciò che viene da dentro. “E da dentro viene, prima di tutto, un desiderio di abbraccio. La parola magica è abbraccio. Ma chi mi abbraccia? Da chi farsi abbracciare? Senza abbraccio non c’è creatura nuova, mentre io ho bisogno di diventare creatura nuova; la solitudine è per me una sospensione che non mi dà la possibilità di farcela, di resistere.” Poiché la solitudine non permette di aprire i cinque sensi, è importante vivere tutti i sensi: l’ascolto, la vista, l’olfatto, il gusto e il tatto. “Abbiamo bisogno di un Dio che ci parli, che ritessa i nostri legami, che venga a noi utilizzando i canali dei cinque sensi. Un Dio che abbia sapori, che abbia colori, che abbia il gusto della relazione e quindi delle diversità.”
Enzo Bianchi, attraverso il brano della Genesi che narra del profeta Giona (Gen. 3, 1-5. 10; 4, 1-11) sottolinea come Dio abbia consegnato all’uomo all’inizio della storia un giardino e alla fine nell’Apocalisse, Dio consegna una città, la nuova Gerusalemme. Nella città il male si fa più evidente; è però sempre la città che permette la socialità, la solidarietà e la communitas.
Riprendendo poi un brano della Lettera Diogneto, Enzo Bianchi ricorda come i cristiani sono fedeli alla terra, alla città, anche quando essa è loro nemica. “Sono pienamente solidali con gli uomini in mezzo ai quali vivono; sono sempre impegnati nel cammino di umanizzazione che riguarda tutti. È la vocazione cristiana che richiede ai cristiani la capacità di essere profeti per la città, inviati alla città per portarle il Vangelo, per recarle l’annuncio della pace, per servire l’umanità.” Prosegue però lasciandoci un interrogativo: “ma i cristiani sono capaci di vivere questa missione? Sanno mostrare la ‘differenza cristiana’ tra gli uomini? Sanno costruire la città insieme agli altri, senza per questo abdicare alla loro fede e alle istanze evangeliche che li abitano? E con quale stile, con quali sentimenti i cristiani abitano la città e vivono in essa da discepoli di Gesù Cristo?”
Il rapporto tra il cristiano e la città è il punto di partenza per la riflessione di Marco Garzonio, prendendo spunto dalle parole di Genesi su Sodoma e Gomorra (Gen. 18, 2 –28. 32). Dopo aver precisato alcune caratteristiche del rapporto tra uomo e Dio come ad esempio la confidenza che può instaurarsi in questo rapporto; la consapevolezza che il Signore mantiene sempre le sue promesse; avere ben chiaro il nesso profondo tra fede e giustizia o la certezza che l’intervento di Dio nella storia agisca sempre per la salvezza dell’uomo, Marco Garzonio ricorda come la sequela di Cristo “è la proposta di via spirituale e insieme psicologica che l’individuo normale ha di fronte. Se la segue, procede alla ricerca di sé, del senso della vita, del ruolo da giocare nel consorzio civile, dentro la città, per la città, per i fratelli, per le strutture che garantiscano una convivenza accettabile.” Propone infine di vivere le ‘virtù metropolitane’ e cioè ‘essere seme’, ‘essere piccolo gregge’ ed ‘essere sentinella’, disponendosi in atteggiamento orante perché “la preghiera può salvare la città.” Infatti, “per Dio tutto è possibile, se lo vogliamo. Lui aspetta. A decidere se seguirlo o meno, se vale la pena di far parte di quei dieci giusti grazie ai quali il Signore è pronto a non colpire Sodoma e i suoi abitanti, siamo noi, a nome nostro e – ricordiamolo sempre – a nome della città intera, di tutti.” Al termine di questo viaggio attraverso le riflessioni sulla città proposte con il libro “Città amata e temuta”, ci piace concludere con le parole di Garzonio che rappresentano sia un auspicio che un impegno da vivere: “Andrebbe chiesto il dono di uomini e di donne, persone semplici e di ordinaria umanità, che nella città, all’unisono con i loro pastori, costituiscano quel popolo di Dio in cammino preconizzato dal concilio Vaticano II.”
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