mercoledì, febbraio 12, 2014
Oltre ogni semplificazione, esiste una nuova questione sociale che interessa la confederazione elvetica e che passa anche dal Canton Ticino e da un certo modello di politica italiana sull'immigrazione. A colloquio con l’economista Luca Crivelli.  

Città Nuova - Anche se di misura, il referendum del 9 febbraio in Svizzera ha visto prevalere la tesi favorevole a limitare i permessi di dimora per stranieri con ''tetti massimi e contingenti annuali'' applicabili, ad una prima lettura, anche a tutti i permessi per cittadini dell'Ue, i frontalieri e i richiedenti asilo. Il risultato ha colto di contropiede governo, sindacati e associazioni d’imprese che avevano dichiarato ufficialmente di essere contrari all’iniziativa del referendum indetto contro la libera circolazione, mentre i rapporti con l’Unione europea rischia una seria incrinatura con effetti collaterali in tutto il continente. Ne abbiamo parlato con Luca Crivelli, professore di economia politica presso l’Università della Svizzera italiana con sede a Lugano.

Visto dall’Italia, esposta ad un flusso migratorio inarrestabile e incontrollabile dal Sud del mondo, il risultato del referendum appare una scelta di chiusura di una nazione ultrabenestante, disposta ad attirare i flussi finanziari e non le persone. Come leggere senza pregiudizi l’esito della consultazione popolare?

«In primo luogo credo sia giusto spiegare ai lettori di Città Nuova che cosa sia un’iniziativa popolare nel contesto istituzionale elvetico. Si definisce “iniziativa popolare” una proposta elaborata da un gruppo di cittadini (e sostenuta da almeno 100 mila firmatari) che si propone di inserire un nuovo principio nella Costituzione Federale. Nel caso specifico, i promotori dell’iniziativa (che ricordo è stata lanciata dall’Unione Democratica di Centro (Udc), partito nazionalista ed antieuropeista che negli ultimi 15 anni è diventato la principale forza politica del Paese) hanno chiesto al popolo svizzero di rendere esplicito nella Costituzione il principio secondo cui “la Svizzera gestisce autonomamente l’immigrazione degli stranieri”.

Ebbene, benché il testo di legge contempli anche il settore dei richiedenti l’asilo, non mi sembrerebbe onesto interpretare il risultato dello scorso fine settimana come una chiusura nei confronti dell’impegno umanitario che contraddistingue la storia della Svizzera. La campagna mediatica che ha preceduto la votazione è stata infatti totalmente incentrata sull’immigrazione di lavoratori dall’Unione Europea e non si è mai parlato, in relazione a questa votazione, di un ridimensionamento dell’accoglienza umanitaria».

Non è comunque una dichiarazione di chiusura del Paese?

«Credo che il voto di domenica vada letto in modo analogo a quello di 22 anni fa (il 6 dicembre 1992), quando il Paese si divise sulla richiesta (presentata dal Consiglio Federale a Bruxelles) di aderire allo Spazio Economico Europeo. Anche allora la decisione di autoescludersi dal progetto europeo fu accolta da una maggioranza risicata (24 mila voti; oggi sono ancora meno: 19 mila) e che anche allora si produsse una divisione tra le culture del Paese: svizzeri francesi massicciamente a favore dell’Europa, svizzeri tedeschi e svizzeri italiani contrari (domenica scorsa ai 6 cantoni di lingua francese, che hanno chiaramente respinto l’iniziativa, si sono però aggiunti anche tre cantoni cittadini di lingua tedesca: Zurigo, Basilea e Zugo). La prima interpretazione di questo voto è dunque in chiave antieuropeista e qui, purtroppo, lo sciovinismo svizzero non rappresenta certo un caso isolato in Europa».

Mentre una lettura più articolata del voto cosa racconta?

«La seconda lettura, quella più sottile, va fatta in termini sociali. Non sono ancora disponibili delle analisi ufficiali sulla stratificazione sociale del voto, ma credo di poter affermare che i settori economico-finanziari, gli imprenditori, il mondo della scienza e dell’università, gli intellettuali e una fetta importante della classe politica abbiano votato in modo massiccio per il mantenimento della libera circolazione, da cui traggono enormi vantaggi. Sono i ceti bassi, le maestranze, i piccoli artigiani e, purtroppo, tanti/troppi giovani ad aver spostato l’ago della bilancia verso la chiusura. E nelle loro fila si trovano tantissime persone che hanno ottenuto da pochi anni la cittadinanza svizzera (i nuovi svizzeri). In Canton Ticino ci sono ad esempio italiani di seconda generazione, diventati svizzeri, ci sono molti esponenti della Lega dei Ticinesi, il movimento antieuropeista (con idee simili a quelle della Lega Nord, ma con la differenza che i meridionali dei ticinesi sono gli abitanti della Lombardia) che è diventato partito di maggioranza relativa nel governo cantonale e nella giunta della città di Lugano.

Quindi i poveri hanno votato contro gli stranieri?

L’esito del voto svizzero ci fa capire che in democrazia non conta solo il livello medio del benessere, ma anche la povertà relativa, la diseguaglianza. Significativo è stato un faccia-faccia su un quotidiano ticinese tra il rampante leader del partito dei verdi (favorevole all’iniziativa) ed un anziano esponente del partito socialista (un oncologo di fama mondiale, parlamentare federale, molto conosciuto per le sue azioni di sostegno alla sanità cubana, messa in ginocchio tecnologicamente dall’embargo statunitense): ebbene il primo ha accusato il secondo di essere ormai un esponente di una “gauche caviar” [una sinistra abituatasi al caviale], senza agganci con la realtà, che sventola bandiere rosse o iridate senza voler scendere nei quartieri popolari, perché secondo l’esponente dei verdi “i proletari veri le fanno un po’ senso”».

di Carlo Cefaloni

(continua)


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