I “valori” di Papa Francesco – Ai consacrati: coniugare economia e “carisma”
di Paolo Fucili
Jorge Mario Bergoglio non ha mai compreso, ha detto lui di persona al Corriere della sera, come un valore possa essere “negoziabile”. E l’affermazione non è passata inosservata, dopo la “stagione” in cui grande enfasi è stata posta sui cosiddetti “valori non negoziabili” appunto, con l’aggettivo utilizzato dapprima da Benedetto XVI il 30 marzo 2006, nel ricevere in udienza in partecipanti ad un convegno a Roma dal Partito popolare europeo.
Quella volta si parlò di “particolare attenzione” a “principi che non sono negoziabili”, al fine di promuovere e difendere la dignità della persona, principale interesse degli interventi della Chiesa nella vita pubblica. E di essi vennero menzionati in specie “protezione della vita in tutte le sue fasi”, “riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia”, “protezione del diritto dei genitori ad educare i loro figli”. Quell’espressione, da allora in poi, è stata variamente citata e soprattutto discussa, non sempre con la necessaria serenità.
Ma dire, come fa ora papa Francesco, che in essa c’è qualcosa di incomprensibile, significa davvero che è tempo di mettere in soffitta i tre valori appena citati, come qualche frettoloso commentatore sembra avere capito? O magari significa che neppure su altri valori, non solo su questi, è lecito “negoziare”?
Una regola aurea del giornalismo insegna da sempre a separare fatti e opinioni. Circa i primi, è bene pure tenere a mente quanto Bergoglio ha effettivamente detto, aggiungendo all’affermazione da cui siamo partiti che “i valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili”. Quanto alle seconde, invece, l’impressione di chi modestamente scrive è che la seconda delle ipotesi sopra formulate (anche altri valori, vale a dire, oltre a vita-famiglia-libertà di educazione, non sono negoziabili) vada considerata e meditata con un po’ più di attenzione di quanto non si sia fatto sinora.
Perché, in altre parole, considerare necessariamente i singoli “valori” come se un’attenzione specifica o un accento posto su uno escludesse giocoforza l’importanza di un altro? Non è forse vero il contrario, nel sistema “valoriale” del magistero ecclesiastico, ovvero che tutti si tengono in piedi e tutti cadono insieme se iniziamo a fare “negozio” dell’uno o dell’altro, e tutti vanno dunque promossi e tutelati, procedendo semmai per “accumulazione”, anziché “esclusione”?
La “variabilità” della frequenza con l’uno o l’altro vengono evocati, è ovvio, dipenderà poi da fattori certamente opinabili quali circostanze diverse, contesto culturale e o politico, sensibilità personali e relative valutazioni. Ma il gioco del tirare il Pontefice per la candida tonaca, per arruolarlo nel fronte dei difensori di “alcuni” valori e avversari di “altri” è un esercizio piuttosto improduttivo, che rischia persino di offuscare la forza e la bellezza delle sue parole.
Come quelle di oggi, nel messaggio indirizzato al simposio organizzato ll’Antonianum di Roma, per riflettere su “La gestione dei beni ecclesiastici degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica a servizio dell’humanum e della missione nella Chiesa". Tema peraltro scottante, per certi aspetti, già affrontato da Bergoglio in termini dirompenti, quando visitò il centro Astalli di Roma, dedicato a rifugiati e richiedenti asilo, affermando sempre in tema di vita consacrata che “i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”.
I beni degli istituti religiosi, ha spiegato più in dettaglio oggi, vanno amministrati con oculatezza e trasparenza. Ma la dimensione economica dell’efficienza va coniugata con quella “carismatico-spirituale” della vita religiosa. Anche il principio di gratuità e la logica del dono, per Bergoglio, hanno un posto cioè nell’attività economica. E per i consacrati in particolare, la logica dell’”essere dono” è iscritta nel loro stesso carisma, qualunque sia l’istituto di appartenenza. Perciò la fedeltà ad esso rimane il primo criterio di valutazione nell’amministrare e gestire tutti i beni (immobili e non solo, ingenti non di rado).
Il pensiero è andato quindi da sé a quella che il Papa argentino chiama “l’economia dell’esclusione e dell’inequità” odierna. La comunità cristiana non può sentirsi interpellata dalla precarietà della maggior parte di uomini e donne di oggi. La vita consacrata, è scritto nel messaggio, è sempre stata “voce profetica e testimonianza vivace della novità che è Cristo”, la cui povertà amorosa vuol dire solidarietà, condivisione, sobrietà, ricerca della giustizia, gioia dell’essenziale, “per mettere dagli idoli materiali che offuscano il senso della vita”.
Quando il mondo è tutto assorbito (come oggi, è facile constatare) dalla conquista, dal possesso, dal godimento dei beni economici, insegnava già Paolo VI citato oggi dal successore, “si avverte, nell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa, il desiderio, quasi il bisogno, di vedere la povertà del Vangelo”, specie tra chi il Vangelo appunto lo predica. Ma una povertà non “teorica”, ha commentato e concluso Francesco, bensì quella che si apprende toccando “la carne di Cristo” negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini; è la logica del Vangelo che ci insegna a superare l’egoismo e confidare nella Provvidenza di Dio.
Come lottare contro la povertà, lo spreco, l’ingiustizia, senza passione autentica per la causa della vita? E si può affermare il valore della vita ignorando tutto quel che ne ferisce e deturpa la dignità? O non sarà mica che tutto il Vangelo, nessuna “parte” esclusa, non è roba per “negozianti”?
di Paolo Fucili
Jorge Mario Bergoglio non ha mai compreso, ha detto lui di persona al Corriere della sera, come un valore possa essere “negoziabile”. E l’affermazione non è passata inosservata, dopo la “stagione” in cui grande enfasi è stata posta sui cosiddetti “valori non negoziabili” appunto, con l’aggettivo utilizzato dapprima da Benedetto XVI il 30 marzo 2006, nel ricevere in udienza in partecipanti ad un convegno a Roma dal Partito popolare europeo.
Quella volta si parlò di “particolare attenzione” a “principi che non sono negoziabili”, al fine di promuovere e difendere la dignità della persona, principale interesse degli interventi della Chiesa nella vita pubblica. E di essi vennero menzionati in specie “protezione della vita in tutte le sue fasi”, “riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia”, “protezione del diritto dei genitori ad educare i loro figli”. Quell’espressione, da allora in poi, è stata variamente citata e soprattutto discussa, non sempre con la necessaria serenità.
Ma dire, come fa ora papa Francesco, che in essa c’è qualcosa di incomprensibile, significa davvero che è tempo di mettere in soffitta i tre valori appena citati, come qualche frettoloso commentatore sembra avere capito? O magari significa che neppure su altri valori, non solo su questi, è lecito “negoziare”?
Una regola aurea del giornalismo insegna da sempre a separare fatti e opinioni. Circa i primi, è bene pure tenere a mente quanto Bergoglio ha effettivamente detto, aggiungendo all’affermazione da cui siamo partiti che “i valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili”. Quanto alle seconde, invece, l’impressione di chi modestamente scrive è che la seconda delle ipotesi sopra formulate (anche altri valori, vale a dire, oltre a vita-famiglia-libertà di educazione, non sono negoziabili) vada considerata e meditata con un po’ più di attenzione di quanto non si sia fatto sinora.
Perché, in altre parole, considerare necessariamente i singoli “valori” come se un’attenzione specifica o un accento posto su uno escludesse giocoforza l’importanza di un altro? Non è forse vero il contrario, nel sistema “valoriale” del magistero ecclesiastico, ovvero che tutti si tengono in piedi e tutti cadono insieme se iniziamo a fare “negozio” dell’uno o dell’altro, e tutti vanno dunque promossi e tutelati, procedendo semmai per “accumulazione”, anziché “esclusione”?
La “variabilità” della frequenza con l’uno o l’altro vengono evocati, è ovvio, dipenderà poi da fattori certamente opinabili quali circostanze diverse, contesto culturale e o politico, sensibilità personali e relative valutazioni. Ma il gioco del tirare il Pontefice per la candida tonaca, per arruolarlo nel fronte dei difensori di “alcuni” valori e avversari di “altri” è un esercizio piuttosto improduttivo, che rischia persino di offuscare la forza e la bellezza delle sue parole.
Come quelle di oggi, nel messaggio indirizzato al simposio organizzato ll’Antonianum di Roma, per riflettere su “La gestione dei beni ecclesiastici degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica a servizio dell’humanum e della missione nella Chiesa". Tema peraltro scottante, per certi aspetti, già affrontato da Bergoglio in termini dirompenti, quando visitò il centro Astalli di Roma, dedicato a rifugiati e richiedenti asilo, affermando sempre in tema di vita consacrata che “i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”.
I beni degli istituti religiosi, ha spiegato più in dettaglio oggi, vanno amministrati con oculatezza e trasparenza. Ma la dimensione economica dell’efficienza va coniugata con quella “carismatico-spirituale” della vita religiosa. Anche il principio di gratuità e la logica del dono, per Bergoglio, hanno un posto cioè nell’attività economica. E per i consacrati in particolare, la logica dell’”essere dono” è iscritta nel loro stesso carisma, qualunque sia l’istituto di appartenenza. Perciò la fedeltà ad esso rimane il primo criterio di valutazione nell’amministrare e gestire tutti i beni (immobili e non solo, ingenti non di rado).
Il pensiero è andato quindi da sé a quella che il Papa argentino chiama “l’economia dell’esclusione e dell’inequità” odierna. La comunità cristiana non può sentirsi interpellata dalla precarietà della maggior parte di uomini e donne di oggi. La vita consacrata, è scritto nel messaggio, è sempre stata “voce profetica e testimonianza vivace della novità che è Cristo”, la cui povertà amorosa vuol dire solidarietà, condivisione, sobrietà, ricerca della giustizia, gioia dell’essenziale, “per mettere dagli idoli materiali che offuscano il senso della vita”.
Quando il mondo è tutto assorbito (come oggi, è facile constatare) dalla conquista, dal possesso, dal godimento dei beni economici, insegnava già Paolo VI citato oggi dal successore, “si avverte, nell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa, il desiderio, quasi il bisogno, di vedere la povertà del Vangelo”, specie tra chi il Vangelo appunto lo predica. Ma una povertà non “teorica”, ha commentato e concluso Francesco, bensì quella che si apprende toccando “la carne di Cristo” negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini; è la logica del Vangelo che ci insegna a superare l’egoismo e confidare nella Provvidenza di Dio.
Come lottare contro la povertà, lo spreco, l’ingiustizia, senza passione autentica per la causa della vita? E si può affermare il valore della vita ignorando tutto quel che ne ferisce e deturpa la dignità? O non sarà mica che tutto il Vangelo, nessuna “parte” esclusa, non è roba per “negozianti”?
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