A Roma fra i pellegrini: “Una sua foto mi ha salvato la vita”
di Mattia Feltri
Vatican Insider - Chissà quanti di questi, sdraiati in piazza, accampati attorno alle fontane, seduti sotto il colonnato a fare pic nic, oppure in fila per centinaia di metri in attesa di vedere la tomba di Karol Wojtyla, coi fazzoletti al collo, le bandierine issate su piccole aste, le magliette chiazzate di sudore, ecco, chissà quanti di questi si sentono in debito col papa polacco che domani sarà santo insieme con Giovanni XXIII. Chissà quanti avrebbero una storia da raccontare, magari minima, ma neanche tanto, una storia come quella che racconta Daniele Venturi, fondatore dell’Associazione Papaboys: «Mia madre aveva un cancro allo stomaco. Erano gli ultimi giorni di Giovanni Paolo II. Il medico disse che mia madre era molto grave. Per spiegarsi usò un’immagine: la clessidra si è girata. Poi il Papa morì, e il cancro di mia madre scomparve nel nulla». Il medico, dice, non seppe dire altro che «non c’è più». Poi qui si sta attenti a misurare le parole. Non so se sia un miracolo, dicono tutti. Il cardinale Stanislao Dziwisz usava il termine «grazia» e lo usò anche per raccontare di un bimbo polacco di nove anni con un cancro al rene: «Non poteva camminare, è stato portato in carrozzina davanti alla tomba di Giovanni Paolo II. Lì ha pregato e appena uscito dalla basilica di San Pietro ha detto ai genitori stupiti di voler camminare. Si è alzato, e ha iniziato a camminare».
Chissà quanti, oggi, sono qui in piazza per ringraziare. Giovanni, trentenne di Palermo, non era credente; tre anni fa la fidanzata gli regalò un’immaginetta di GPII e lui per farla contenta se la mise nel portafoglio. Una notte rincasando ebbe un incidente con la macchina e la ridusse in modo che i soccorritori pensavano non ci fosse nulla da fare. Invece non aveva un graffio. La fidanzata, a casa, si svegliò di soprassalto dopo aver sognato Wojtyla che le diceva di stare tranquilla. Poi squillò il telefono ed era Giovanni che le spiegava che cosa era successo. Ora è credente anche lui ed è uno dei tanti che si appoggiano ai Papaboys in questi giorni di assalto soprattutto a un sentimento.
Don Salvatore, romano, lo dice che «i miracoli sono stabiliti tali dalla Congregazione delle cause dei santi». Ma chiunque, dice, è in diritto di sentirsi miracolato. A noi racconta di un suo amico di Palermo, don Mario (il nome è di fantasia): «Ha quarantadue anni. Un giorno stava poco bene, aveva un forte mal di testa. Lo accompagnai in ospedale e la Tac individuò un cancro al cervello. Andammo alla Casa Sollievo e Sofferenza di San Giovanni Rotondo. La notte don Mario sognò Giovanni Paolo II e Padre Pio e il Papa gli disse di non preoccuparsi che aveva ancora tanto lavoro da fare. Alla mattina don Mario me lo raccontò. Fece di nuovo la Tac: non aveva più niente». Sono alcune centinaia le notizie di guarigioni improvvise arrivate alla Congregazione. Se ne trova testimonianza in molti libri, come quello di Saverio Gaeta e Slawomir Oder (“Karol il santo”) o quello di Aleksandra Zapotoczny (“Vivi dentro di noi”). Decine e decine di vicende miracolose per i credenti, misteriose per chi non ha fede: afflitti e infermi che da un giorno con l’altro sono tornati in forze. E però qui, oggi, in piazza San Pietro, si è riconoscenti per mille e mille ragioni.
Alessandro, 44 anni, torinese, ricorda che nel 2008 la crisi gli aveva portato via tutto, la casa, la macchina. «Aprii la finestra per buttarmi di sotto e in quel momento mi è di colpo venuto in mente Giovanni Paolo II. Mi sono fermato. Oggi lo prego tutti i giorni. Adesso ho imparato ad accettare la mia nuova condizione e il bene che mi porta». Rossella ha 50 anni, è di Milano. La sua è la storia di una cugina la cui nipote aveva sei o sette anni e faceva dentro e fuori dall’ospedale per via di una gracilità che la spossava e la rendeva particolarmente cagionevole. «Mia cugina sognò Wojtyla. Non le disse niente, ma lei l’indomani spiegò che lui la guardava intensamente. Presto la bimba è migliorata. In ospedale non c’è andata più».
È così, ci sono vicende da poco e vicende di sfuggente enormità. Però le raccontano tutti allo stesso modo, intanto che a pochi metri da qui hanno montato una pianola: giovani americani cantano e due di loro reggono una croce alta cinque o sei metri. Attorno a noi salgono ragazzi in carrozzina spinti da madri boccheggianti. v
di Mattia Feltri
Vatican Insider - Chissà quanti di questi, sdraiati in piazza, accampati attorno alle fontane, seduti sotto il colonnato a fare pic nic, oppure in fila per centinaia di metri in attesa di vedere la tomba di Karol Wojtyla, coi fazzoletti al collo, le bandierine issate su piccole aste, le magliette chiazzate di sudore, ecco, chissà quanti di questi si sentono in debito col papa polacco che domani sarà santo insieme con Giovanni XXIII. Chissà quanti avrebbero una storia da raccontare, magari minima, ma neanche tanto, una storia come quella che racconta Daniele Venturi, fondatore dell’Associazione Papaboys: «Mia madre aveva un cancro allo stomaco. Erano gli ultimi giorni di Giovanni Paolo II. Il medico disse che mia madre era molto grave. Per spiegarsi usò un’immagine: la clessidra si è girata. Poi il Papa morì, e il cancro di mia madre scomparve nel nulla». Il medico, dice, non seppe dire altro che «non c’è più». Poi qui si sta attenti a misurare le parole. Non so se sia un miracolo, dicono tutti. Il cardinale Stanislao Dziwisz usava il termine «grazia» e lo usò anche per raccontare di un bimbo polacco di nove anni con un cancro al rene: «Non poteva camminare, è stato portato in carrozzina davanti alla tomba di Giovanni Paolo II. Lì ha pregato e appena uscito dalla basilica di San Pietro ha detto ai genitori stupiti di voler camminare. Si è alzato, e ha iniziato a camminare».
Chissà quanti, oggi, sono qui in piazza per ringraziare. Giovanni, trentenne di Palermo, non era credente; tre anni fa la fidanzata gli regalò un’immaginetta di GPII e lui per farla contenta se la mise nel portafoglio. Una notte rincasando ebbe un incidente con la macchina e la ridusse in modo che i soccorritori pensavano non ci fosse nulla da fare. Invece non aveva un graffio. La fidanzata, a casa, si svegliò di soprassalto dopo aver sognato Wojtyla che le diceva di stare tranquilla. Poi squillò il telefono ed era Giovanni che le spiegava che cosa era successo. Ora è credente anche lui ed è uno dei tanti che si appoggiano ai Papaboys in questi giorni di assalto soprattutto a un sentimento.
Don Salvatore, romano, lo dice che «i miracoli sono stabiliti tali dalla Congregazione delle cause dei santi». Ma chiunque, dice, è in diritto di sentirsi miracolato. A noi racconta di un suo amico di Palermo, don Mario (il nome è di fantasia): «Ha quarantadue anni. Un giorno stava poco bene, aveva un forte mal di testa. Lo accompagnai in ospedale e la Tac individuò un cancro al cervello. Andammo alla Casa Sollievo e Sofferenza di San Giovanni Rotondo. La notte don Mario sognò Giovanni Paolo II e Padre Pio e il Papa gli disse di non preoccuparsi che aveva ancora tanto lavoro da fare. Alla mattina don Mario me lo raccontò. Fece di nuovo la Tac: non aveva più niente». Sono alcune centinaia le notizie di guarigioni improvvise arrivate alla Congregazione. Se ne trova testimonianza in molti libri, come quello di Saverio Gaeta e Slawomir Oder (“Karol il santo”) o quello di Aleksandra Zapotoczny (“Vivi dentro di noi”). Decine e decine di vicende miracolose per i credenti, misteriose per chi non ha fede: afflitti e infermi che da un giorno con l’altro sono tornati in forze. E però qui, oggi, in piazza San Pietro, si è riconoscenti per mille e mille ragioni.
Alessandro, 44 anni, torinese, ricorda che nel 2008 la crisi gli aveva portato via tutto, la casa, la macchina. «Aprii la finestra per buttarmi di sotto e in quel momento mi è di colpo venuto in mente Giovanni Paolo II. Mi sono fermato. Oggi lo prego tutti i giorni. Adesso ho imparato ad accettare la mia nuova condizione e il bene che mi porta». Rossella ha 50 anni, è di Milano. La sua è la storia di una cugina la cui nipote aveva sei o sette anni e faceva dentro e fuori dall’ospedale per via di una gracilità che la spossava e la rendeva particolarmente cagionevole. «Mia cugina sognò Wojtyla. Non le disse niente, ma lei l’indomani spiegò che lui la guardava intensamente. Presto la bimba è migliorata. In ospedale non c’è andata più».
È così, ci sono vicende da poco e vicende di sfuggente enormità. Però le raccontano tutti allo stesso modo, intanto che a pochi metri da qui hanno montato una pianola: giovani americani cantano e due di loro reggono una croce alta cinque o sei metri. Attorno a noi salgono ragazzi in carrozzina spinti da madri boccheggianti. v
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