Papa Francesco ai sacerdoti per la messa del crisma: anche nella tristezza Dio vi protegge
Che la “gioia” sia il “sale”, l’ingrediente fondamentale della sua “ricetta” del buon cristiano, lo dimostra il fatto non secondario che dà titolo e ispirazione di fondo alla “magna charta” del cristianesimo secondo Jorge Mario Bergoglio, la famosa “Evangelii Gaudium”, la “gioia del Vangelo”, appunto, che “riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”, assicura l’incipit di quel così ricco ed intenso testo.
Ciò non toglie che persino la vita di un sacerdote, che di quella gioia dovrebbe essere piena, sia fatta pure di momenti di tristezza, apatia, noia “in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce”, li descrive il Papa argentino con la significativa ammissione che è per esperienza diretta che parla: “anche io”, ha confidato infatti stamane, “ci sono passato”, tanto per assestare un’altra energica picconata alla “mitologia” del papa Superman che proprio dice di non sopportare.
E comunque, dovremmo ricordarci più spesso (sulla scorta magari anche dei frequenti richiami del predecessore Benedetto XVI): il cristianesimo è gioia, prima di tutto, sennò perché dannarsi tanto l’anima per annunciarlo a chi non lo conosce? Ecco, ad un’attenta lettura, il senso di fondo dell’omelia che Francesco ha indirizzato stamane ai suoi sacerdoti di Roma, introdotta con l’annotazione che oggi, giovedì santo, “facciamo memoria del giorno felice dell’istituzione del sacerdozio e di quello della nostra ordinazione”. E non c’è al mondo gioia più genuina e piena che “essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù”, assicura sua Santità senza la minima ombra di dubbio.
L’occasione era la messa del crisma che ogni vescovo appunto, nelle cattedrali di tutto l’orbe cattolico, celebra insieme al presbiterio diocesano per benedire l’olio degli infermi e dei catecumeni e consacrare il crisma della liturgia delle ordinazioni sacerdotali. Tutti ricordano il monito ad essere “pastori” con “addosso” l’odore delle pecore, lanciato un anno fa nella medesima circostanza di oggi, che evidentemente ispira molto papa Francesco. “Sacerdote” anche lui, prima ancora che vescovo e Papa, che vive il suo essere tale con una gioia che traspare oggi ancora da ogni gesto e parola.
Che sia questo, sarebbe davvero il caso di chiederci, il “segreto” del favore popolare di cui è circondato? Gioia anzitutto perché Dio ci ha scelto pur nella nostra piccolezza, ha spiegato stamane evocando “l’umiltà” di Maria del Magnificat. E sarà bene ricordarsene, ha ammonito tutti dolce e fermo insieme: “Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge”.
Detto ancor meglio, evocando la simbologia odierna dell’olio, la gioia dell’essere sacerdoti deve “ungere” senza rendere “untuosi, sontuosi e presuntuosi”. IL peccato e le preoccupazioni della vita potranno soffocarla, ma “nel profondo rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata”. E soprattutto, terzo punto del caratteristico stile di Bergoglio di “tripartire” concetti e discorsi, è una gioia “missionaria”, “fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge”; anzi, è il gregge il custode di essa, anche nei momenti buio di cui sopra appunto si diceva: “persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata”.
Poi sono tre “sorelle” che proteggono anch’esse la gioia del sacerdote. Anzitutto la povertà, giacché “il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé…”. Si parla spesso di crisi di identità del prete, è vero, dimenticando però che quell’identità è “appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio”, altrimenti neppure gioia ci può essere.
E’ il concetto famoso, da un anno a questa parte, dell’ “odore delle pecore” sopra evocato. L’identità non si trova con l’introspezione di sé, è il messaggio rinforzato oggi: “esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi.
Poi viene la fedeltà, che non significa non essere peccatori come invece tutti siamo, semmai felicità di trattare come sposa prediletta ed unica amata la Chiesa, “I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre…”.
Terza ed ultima viene l’obbedienza, che non riguarda solo incarichi e parrocchie del sacerdote: c’è anche il “servizio”, “disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore”, così che la Chiesa diventi, come Bergoglio ardentemente la vuole, una casa “dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare…”.
Tutte le volte che parla di sacerdozio, è l’impressione che le parole di oggi confermano, papa Francesco sa far vibrare le corde più segrete dei sacerdoti e pure del “gregge” di fedeli che è il custode primo e più importante, abbiamo appreso oggi, della loro gioia di essere stati misteriosamente chiamati ad essere “pastori”. Ma la corda della gioia suona bene solo se anche le altre sono bene accordate, è il senso della brusca severità dei richiami che Francesco non esita a dispensare ad ogni occasione buona, ad esempio la “mediocrità” contro cui appena lunedì aveva avuto parole di fuoco, incontrando un gruppo di seminaristi arrivati da Anagni: il sacerdozio non è un mestiere presso un organismo burocratico, la mentalità per cui “abbiamo invece tanti, tanti preti a metà”, si è lamentato; “nella sequela ministeriale di Gesù non c’è posto quella mediocrità che conduce sempre ad usare il santo popolo di Dio a proprio vantaggio...”; e anche in tempi come questi di calo numerico dei sacerdoti in forza a diocesi e parrocchie, “meglio perdere una vocazione che rischiare con un candidato non sicuro”, ha ammonito con franchezza tanto ruvida quando soave suonava oggi la “gioia” menzionata più volte.
Che misteriosa vertigine di ardore, fatica, grazia, fragilità è il sacerdozio! Se ci pensassimo tutti noi più spesso, verrebbe spontaneo certo unirsi alla preghiera con cui Francesco ha concluso un’omelia insolitamente lunga per i suoi standard, a riprova nondimeno di quanto a cuore gli stia il tema: per i sacerdoti giovani, perché il Signore “conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per "mangiarsi" il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio”; per quelli di mezza età “che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano, ‘cambiano aria’, come dicono gli sportivi”; per quelli anziani perché risplenda in loro, detto con ispirate parole, “la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta”.
Che la “gioia” sia il “sale”, l’ingrediente fondamentale della sua “ricetta” del buon cristiano, lo dimostra il fatto non secondario che dà titolo e ispirazione di fondo alla “magna charta” del cristianesimo secondo Jorge Mario Bergoglio, la famosa “Evangelii Gaudium”, la “gioia del Vangelo”, appunto, che “riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”, assicura l’incipit di quel così ricco ed intenso testo.
Ciò non toglie che persino la vita di un sacerdote, che di quella gioia dovrebbe essere piena, sia fatta pure di momenti di tristezza, apatia, noia “in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce”, li descrive il Papa argentino con la significativa ammissione che è per esperienza diretta che parla: “anche io”, ha confidato infatti stamane, “ci sono passato”, tanto per assestare un’altra energica picconata alla “mitologia” del papa Superman che proprio dice di non sopportare.
E comunque, dovremmo ricordarci più spesso (sulla scorta magari anche dei frequenti richiami del predecessore Benedetto XVI): il cristianesimo è gioia, prima di tutto, sennò perché dannarsi tanto l’anima per annunciarlo a chi non lo conosce? Ecco, ad un’attenta lettura, il senso di fondo dell’omelia che Francesco ha indirizzato stamane ai suoi sacerdoti di Roma, introdotta con l’annotazione che oggi, giovedì santo, “facciamo memoria del giorno felice dell’istituzione del sacerdozio e di quello della nostra ordinazione”. E non c’è al mondo gioia più genuina e piena che “essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù”, assicura sua Santità senza la minima ombra di dubbio.
L’occasione era la messa del crisma che ogni vescovo appunto, nelle cattedrali di tutto l’orbe cattolico, celebra insieme al presbiterio diocesano per benedire l’olio degli infermi e dei catecumeni e consacrare il crisma della liturgia delle ordinazioni sacerdotali. Tutti ricordano il monito ad essere “pastori” con “addosso” l’odore delle pecore, lanciato un anno fa nella medesima circostanza di oggi, che evidentemente ispira molto papa Francesco. “Sacerdote” anche lui, prima ancora che vescovo e Papa, che vive il suo essere tale con una gioia che traspare oggi ancora da ogni gesto e parola.
Che sia questo, sarebbe davvero il caso di chiederci, il “segreto” del favore popolare di cui è circondato? Gioia anzitutto perché Dio ci ha scelto pur nella nostra piccolezza, ha spiegato stamane evocando “l’umiltà” di Maria del Magnificat. E sarà bene ricordarsene, ha ammonito tutti dolce e fermo insieme: “Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge”.
Detto ancor meglio, evocando la simbologia odierna dell’olio, la gioia dell’essere sacerdoti deve “ungere” senza rendere “untuosi, sontuosi e presuntuosi”. IL peccato e le preoccupazioni della vita potranno soffocarla, ma “nel profondo rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata”. E soprattutto, terzo punto del caratteristico stile di Bergoglio di “tripartire” concetti e discorsi, è una gioia “missionaria”, “fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge”; anzi, è il gregge il custode di essa, anche nei momenti buio di cui sopra appunto si diceva: “persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata”.
Poi sono tre “sorelle” che proteggono anch’esse la gioia del sacerdote. Anzitutto la povertà, giacché “il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé…”. Si parla spesso di crisi di identità del prete, è vero, dimenticando però che quell’identità è “appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio”, altrimenti neppure gioia ci può essere.
E’ il concetto famoso, da un anno a questa parte, dell’ “odore delle pecore” sopra evocato. L’identità non si trova con l’introspezione di sé, è il messaggio rinforzato oggi: “esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi.
Poi viene la fedeltà, che non significa non essere peccatori come invece tutti siamo, semmai felicità di trattare come sposa prediletta ed unica amata la Chiesa, “I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre…”.
Terza ed ultima viene l’obbedienza, che non riguarda solo incarichi e parrocchie del sacerdote: c’è anche il “servizio”, “disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore”, così che la Chiesa diventi, come Bergoglio ardentemente la vuole, una casa “dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare…”.
Tutte le volte che parla di sacerdozio, è l’impressione che le parole di oggi confermano, papa Francesco sa far vibrare le corde più segrete dei sacerdoti e pure del “gregge” di fedeli che è il custode primo e più importante, abbiamo appreso oggi, della loro gioia di essere stati misteriosamente chiamati ad essere “pastori”. Ma la corda della gioia suona bene solo se anche le altre sono bene accordate, è il senso della brusca severità dei richiami che Francesco non esita a dispensare ad ogni occasione buona, ad esempio la “mediocrità” contro cui appena lunedì aveva avuto parole di fuoco, incontrando un gruppo di seminaristi arrivati da Anagni: il sacerdozio non è un mestiere presso un organismo burocratico, la mentalità per cui “abbiamo invece tanti, tanti preti a metà”, si è lamentato; “nella sequela ministeriale di Gesù non c’è posto quella mediocrità che conduce sempre ad usare il santo popolo di Dio a proprio vantaggio...”; e anche in tempi come questi di calo numerico dei sacerdoti in forza a diocesi e parrocchie, “meglio perdere una vocazione che rischiare con un candidato non sicuro”, ha ammonito con franchezza tanto ruvida quando soave suonava oggi la “gioia” menzionata più volte.
Che misteriosa vertigine di ardore, fatica, grazia, fragilità è il sacerdozio! Se ci pensassimo tutti noi più spesso, verrebbe spontaneo certo unirsi alla preghiera con cui Francesco ha concluso un’omelia insolitamente lunga per i suoi standard, a riprova nondimeno di quanto a cuore gli stia il tema: per i sacerdoti giovani, perché il Signore “conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per "mangiarsi" il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio”; per quelli di mezza età “che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano, ‘cambiano aria’, come dicono gli sportivi”; per quelli anziani perché risplenda in loro, detto con ispirate parole, “la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta”.
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