Il Papa ricorda il viaggio in Giordania, territori palestinesi ed Israele
di Paolo Fucili
I gesti più autentici, diceva Francesco giusto due giorni fa sul volo Tel Aviv – Roma, son “quelli che non si pensano”. Proprio come i non pochi suoi, del tutto imprevisti, compiuti tra Giordania e soprattutto Israele, sulla cui autenticità è impossibile avanzare alcun dubbio. Il fittissimo programma di tre giorni e due notti, con trasferimenti continui tra Amman, Betlemme e Gerusalemme, sembrava non lasciare spazio alcuno a niente che non fosse stato previsto e studiato in fase di preparazione.
Ma quando un gesto appunto è “autentico”, la questione non è il tempo, giacché si può compiere anche in un pochi secondi: senza considerare che il programma di un viaggio papale è si uno strumento pressoché indispensabile, per organizzare bene come si conviene qualsiasi visita del Papa fuori dal suo Vaticano, ma neppure è un totem innanzi a cui prostrarsi come fosse qualcosa di sacro e intoccabile.
Vengono in mente gli interminabili minuti della diretta video di domenica sera, a Gerusalemme, rilanciata in tutto il mondo da decine e decine di canali tv, con la regia costretta suo malgrado a inquadrare fissa la porta da cui era atteso per le 19.00 esatte l'ingresso di Francesco e Bartolomeo sulla piazza antistante la Basilica del Santo Sepolcro. E prima che Papa e Patriarca ecumenico di Costantinopoli si materializzassero, è passata almeno un'ora buona. Il motivo del cospicuo ritardo, si è appreso, è stato il prolungarsi del loro colloquio privato immediatamente precedente, con firma di una dichiarazione congiunta per solennizzare un incontro dal carattere decisamente eccezionale.
“Con Bartolomeo parliamo come fratelli, ci vogliamo bene, ci raccontiamo le difficoltà del nostro governo...” ha riferito poi papa Bergoglio ai giornalisti ospitati sul suo stesso aereo. Dove ha trovato l'energia per quell'intervista, alla fine di quel viaggio così faticoso, nessuno lo sa, pure per rispondere alla domanda se i gesti improvvisati che han fatto la storia di questo pellegrinaggio in Terrasanta, fossero in realtà già pensati e voluti oppure no...
Il bacio sulla pietra dell'unzione, ad esempio, su cui Francesco e il Patriarca si sono chinati insieme per venerarla così. O in genere tutti i “segnali” lanciati a vicenda con un linguaggio incapace di mentire, quello del corpo, da cui traspariva tutta la reciproca cordiale amicizia. Tutto il viaggio papale sui luoghi della vita del Cristo era stato del resto concepito come pellegrinaggio per far memoria di un analogo evento, il primo storico incontro dei predecessori Paolo VI e Atenagora proprio là a Gerusalemme, nel gennaio 1964, ma non nel Santo Sepolcro. La celebrazione ecumenica sul luogo della crocifissione e sepoltura di Gesù, coi sommi pastori della Chiesa cattolica e dell'Ortodossia, in compagnia di vari altri rappresentanti di chiese e comunità cristiane, è un evento per il quale non c'erano precedenti di alcun tipo.
L'abbraccio di Papa Montini e Atenagora, cui seguì poco dopo la revoca delle reciproche scomuniche pronunciate nove secoli prima a Roma e Costantinopoli, “ha posto una pietra miliare nel cammino sofferto ma promettente dell’unità di tutti i cristiani, che da allora ha compiuto passi rilevanti”, ha spiegato quindi stamane Bergoglio ai trentacinquemila fedeli riuniti in san Pietro all'udienza generale; ecco perché “il mio incontro con Sua Santità Bartolomeo, amato fratello in Cristo, ha rappresentato il momento culminante della visita”.
Com'è consuetudine per il Pontefice (Bergoglio e pure i suoi predecessori), l'udienza del primo mercoledì dopo il rientro a Roma da una trasvolata all'estero è stata dedicata ad illustrare contenuti, episodi ed emozioni del viaggio appena compiuto. Senza trascurare sensazioni spiacevoli che neppure in Israele, al di là del generale clima gioioso di festa, sono mancate. “In quel luogo dove risuonò l’annuncio della Risurrezione”, ha proseguito dunque Francesco, “abbiamo avvertito tutta l’amarezza e la sofferenza delle divisioni che ancora esistono tra i discepoli di Cristo; e davvero questo fa tanto male, male al cuore. Siamo divisi ancora...”.
Tanto più perciò “abbiamo sentito il desiderio di sanare le ferite ancora aperte e proseguire con tenacia il cammino verso la piena comunione”. E siccome la riconciliazione, dopo qualsiasi conflitto richiede la capacità di chiedere perdono e perdonare a propria volta, come del resto Begoglio ha detto in Terrasanta in tutte le salse, “come hanno fatto i Papi precedenti io chiedo perdono per quello che noi abbiamo fatto per favorire questa divisione, e chiedo allo Spirito Santo che ci aiuti a risanare le ferite che noi abbiamo fatto agli altri fratelli”, sono parole non scontate avute da Francesco col pensiero rivolto alla penosa storia delle secolari e scandalose contrapposizioni tra cattolici e ortodossi.
Altro tema del viaggio, rievocato oggi anch'esso, era naturalmente la pace per tutto il turbolento Medioriente, da incoraggiare come Francesco ha fatto ad ogni tappa del suo viaggiare là “sempre come pellegrino, nel nome di Dio e dell’uomo, portando nel cuore una grande compassione per i figli di quella Terra che da troppo tempo convivono con la guerra e hanno il diritto di conoscere finalmente giorni di pace!”. Con in aggiunta l'avvertimento severo che la pace è questione di piccoli e quotidiani gesti di umiltà, fratellanza e riconciliazione, atteggiamenti da assumere tutti, con persone di diverse culture e religioni, diventando “artigiani”, proprio così, “della pace”. Perché “la pace si fa artigianalmente! Non ci sono industrie di pace, no. Si fa ogni giorno, artigianalmente, e anche col cuore aperto perché venga il dono di Dio”.
Il viaggio in Terrasanta avrà un seguito significativo (tanto che il relativo annuncio è rimbalzato immediatamente su TV, giornali e siti web di tutto il mondo) nell'incontro prossimo in Vaticano cui sono invitati i presidenti di Israele, Peres, e territori palestinesi, Abu Mazen: “e per favore, chiedo a voi di non lasciarci soli: voi pregate, pregate tanto perché il Signore ci dia la pace, ci dia la pace in quella Terra benedetta! Conto sulle vostre preghiere”, chiede sua Santità, la cui passione per la causa dell'auspicata soluzione al conflitto israelo-palestinese è tutta racchiusa in due istantanee scattate là a distanza di poche ore, in circostanze impreviste anch'esse, come tante altre. La prima è la preghiera a Betlemme sul muro di separazione che isola i territori palestinesi dal resto del mondo, la seconda è l'omaggio al monumento innalzato a Gerusalemme alle vittime israeliane del terrorismo.
Poi c'è la potente emozione provata in Giordania, incontrando le comunità dei numerosi profughi (tra cui parecchi cristiani) dei conflitti vecchi e nuovi nelle nazioni vicine: Siria (1.300.000), Iraq, Palestina e Israele. “Dobbiamo pregare”, esorta ancora oggi il Pontefice, “perché il Signore benedica questa accoglienza e chiedere a tutte le istituzioni internazionali di aiutare questo popolo in questo lavoro di accoglienza che fa”.
Infine, in ordine non di importanza, la tre giorni papale in Medioriente è stata occasione, nel resoconto oggi fornito dal diretto interessato, di confermare nella fede le piccole comunità cristiane di quell'area “che soffrono tanto”,sono commosse parole di Francesco. “Ho voluto portare una parola di speranza”, ha detto, in realtà “l’ho anche ricevuta a mia volta! L’ho ricevuta da fratelli e sorelle che sperano 'contro ogni speranza', attraverso tante sofferenze, come quelle di chi è fuggito dal proprio Paese a motivo dei conflitti; come quelle di quanti, in diverse parti del mondo, sono discriminati e disprezzati a causa della loro fede in Cristo”.
di Paolo Fucili
I gesti più autentici, diceva Francesco giusto due giorni fa sul volo Tel Aviv – Roma, son “quelli che non si pensano”. Proprio come i non pochi suoi, del tutto imprevisti, compiuti tra Giordania e soprattutto Israele, sulla cui autenticità è impossibile avanzare alcun dubbio. Il fittissimo programma di tre giorni e due notti, con trasferimenti continui tra Amman, Betlemme e Gerusalemme, sembrava non lasciare spazio alcuno a niente che non fosse stato previsto e studiato in fase di preparazione.
Ma quando un gesto appunto è “autentico”, la questione non è il tempo, giacché si può compiere anche in un pochi secondi: senza considerare che il programma di un viaggio papale è si uno strumento pressoché indispensabile, per organizzare bene come si conviene qualsiasi visita del Papa fuori dal suo Vaticano, ma neppure è un totem innanzi a cui prostrarsi come fosse qualcosa di sacro e intoccabile.
Vengono in mente gli interminabili minuti della diretta video di domenica sera, a Gerusalemme, rilanciata in tutto il mondo da decine e decine di canali tv, con la regia costretta suo malgrado a inquadrare fissa la porta da cui era atteso per le 19.00 esatte l'ingresso di Francesco e Bartolomeo sulla piazza antistante la Basilica del Santo Sepolcro. E prima che Papa e Patriarca ecumenico di Costantinopoli si materializzassero, è passata almeno un'ora buona. Il motivo del cospicuo ritardo, si è appreso, è stato il prolungarsi del loro colloquio privato immediatamente precedente, con firma di una dichiarazione congiunta per solennizzare un incontro dal carattere decisamente eccezionale.
“Con Bartolomeo parliamo come fratelli, ci vogliamo bene, ci raccontiamo le difficoltà del nostro governo...” ha riferito poi papa Bergoglio ai giornalisti ospitati sul suo stesso aereo. Dove ha trovato l'energia per quell'intervista, alla fine di quel viaggio così faticoso, nessuno lo sa, pure per rispondere alla domanda se i gesti improvvisati che han fatto la storia di questo pellegrinaggio in Terrasanta, fossero in realtà già pensati e voluti oppure no...
L'abbraccio di Papa Montini e Atenagora, cui seguì poco dopo la revoca delle reciproche scomuniche pronunciate nove secoli prima a Roma e Costantinopoli, “ha posto una pietra miliare nel cammino sofferto ma promettente dell’unità di tutti i cristiani, che da allora ha compiuto passi rilevanti”, ha spiegato quindi stamane Bergoglio ai trentacinquemila fedeli riuniti in san Pietro all'udienza generale; ecco perché “il mio incontro con Sua Santità Bartolomeo, amato fratello in Cristo, ha rappresentato il momento culminante della visita”.
Com'è consuetudine per il Pontefice (Bergoglio e pure i suoi predecessori), l'udienza del primo mercoledì dopo il rientro a Roma da una trasvolata all'estero è stata dedicata ad illustrare contenuti, episodi ed emozioni del viaggio appena compiuto. Senza trascurare sensazioni spiacevoli che neppure in Israele, al di là del generale clima gioioso di festa, sono mancate. “In quel luogo dove risuonò l’annuncio della Risurrezione”, ha proseguito dunque Francesco, “abbiamo avvertito tutta l’amarezza e la sofferenza delle divisioni che ancora esistono tra i discepoli di Cristo; e davvero questo fa tanto male, male al cuore. Siamo divisi ancora...”.
Tanto più perciò “abbiamo sentito il desiderio di sanare le ferite ancora aperte e proseguire con tenacia il cammino verso la piena comunione”. E siccome la riconciliazione, dopo qualsiasi conflitto richiede la capacità di chiedere perdono e perdonare a propria volta, come del resto Begoglio ha detto in Terrasanta in tutte le salse, “come hanno fatto i Papi precedenti io chiedo perdono per quello che noi abbiamo fatto per favorire questa divisione, e chiedo allo Spirito Santo che ci aiuti a risanare le ferite che noi abbiamo fatto agli altri fratelli”, sono parole non scontate avute da Francesco col pensiero rivolto alla penosa storia delle secolari e scandalose contrapposizioni tra cattolici e ortodossi.
Altro tema del viaggio, rievocato oggi anch'esso, era naturalmente la pace per tutto il turbolento Medioriente, da incoraggiare come Francesco ha fatto ad ogni tappa del suo viaggiare là “sempre come pellegrino, nel nome di Dio e dell’uomo, portando nel cuore una grande compassione per i figli di quella Terra che da troppo tempo convivono con la guerra e hanno il diritto di conoscere finalmente giorni di pace!”. Con in aggiunta l'avvertimento severo che la pace è questione di piccoli e quotidiani gesti di umiltà, fratellanza e riconciliazione, atteggiamenti da assumere tutti, con persone di diverse culture e religioni, diventando “artigiani”, proprio così, “della pace”. Perché “la pace si fa artigianalmente! Non ci sono industrie di pace, no. Si fa ogni giorno, artigianalmente, e anche col cuore aperto perché venga il dono di Dio”.
Il viaggio in Terrasanta avrà un seguito significativo (tanto che il relativo annuncio è rimbalzato immediatamente su TV, giornali e siti web di tutto il mondo) nell'incontro prossimo in Vaticano cui sono invitati i presidenti di Israele, Peres, e territori palestinesi, Abu Mazen: “e per favore, chiedo a voi di non lasciarci soli: voi pregate, pregate tanto perché il Signore ci dia la pace, ci dia la pace in quella Terra benedetta! Conto sulle vostre preghiere”, chiede sua Santità, la cui passione per la causa dell'auspicata soluzione al conflitto israelo-palestinese è tutta racchiusa in due istantanee scattate là a distanza di poche ore, in circostanze impreviste anch'esse, come tante altre. La prima è la preghiera a Betlemme sul muro di separazione che isola i territori palestinesi dal resto del mondo, la seconda è l'omaggio al monumento innalzato a Gerusalemme alle vittime israeliane del terrorismo.
Poi c'è la potente emozione provata in Giordania, incontrando le comunità dei numerosi profughi (tra cui parecchi cristiani) dei conflitti vecchi e nuovi nelle nazioni vicine: Siria (1.300.000), Iraq, Palestina e Israele. “Dobbiamo pregare”, esorta ancora oggi il Pontefice, “perché il Signore benedica questa accoglienza e chiedere a tutte le istituzioni internazionali di aiutare questo popolo in questo lavoro di accoglienza che fa”.
Infine, in ordine non di importanza, la tre giorni papale in Medioriente è stata occasione, nel resoconto oggi fornito dal diretto interessato, di confermare nella fede le piccole comunità cristiane di quell'area “che soffrono tanto”,sono commosse parole di Francesco. “Ho voluto portare una parola di speranza”, ha detto, in realtà “l’ho anche ricevuta a mia volta! L’ho ricevuta da fratelli e sorelle che sperano 'contro ogni speranza', attraverso tante sofferenze, come quelle di chi è fuggito dal proprio Paese a motivo dei conflitti; come quelle di quanti, in diverse parti del mondo, sono discriminati e disprezzati a causa della loro fede in Cristo”.
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