La controversia storia di un “genocidio” negato
Quel “martirio” cui ogni cristiano è chiamato fino a perdere non di rado la vita fa parte di ogni epoca della millenaria e tormentata storia della Chiesa, non esclusa la più recente, giacché l’odio dei nostri persecutori è lo stesso odio del demonio per Gesù, diceva appena due giorni fa papa Francesco. Anzi, ha spiegato oggi tornando ancora sull'argomento, “il numero dei discepoli che hanno sparso il loro sangue per Cristo nelle tragiche vicende del secolo scorso è certamente superiore a quello dei martiri dei primi secoli”. E rivolgendosi al suo illustre ospite, sua santità Karekin II, che porta il solenne titolo di Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni, ha aggiunto come era doveroso che “in questo martirologio i figli della nazione armena hanno un posto d’onore”, poiché a innumerevoli uomini e donne di quel popolo è toccata l'atroce sorte di “vivere” il “mistero della Croce”, son parole del Papa, come “diretta partecipazione al calice della Passione. La loro testimonianza, tragica e alta insieme, non deve essere dimenticata”..
Il riferimento, seppur non esplicito, è alla deportazione e allo sterminio di centinaia di migliaia di armeni avvenuto nel 1915 in Turchia, dove costituiscono tutt’ora una piccola minoranza etnico-religiosa. Ma dire di più e con più forza sarebbe forse stato troppo impegnativo “anche” e “soprattutto” per il Papa, poiché la vicenda in questione rinfocola ancora un secolo dopo annose controversie e furiose polemiche, ogni volta che viene toccata, tra i popoli che furono parta in causa: da un lato la Turchia islamica erede dell’Impero ottomano, dove l’utilizzo del termine “genocidio” per lo sterminio degli armeni è addirittura punibile per legge (ma questo “negazionismo”, non meno scellerato e infame di altri, non scalda troppo i cuori dell'opinione pubblica internazionale); dall’altro un popolo di antichissima tradizione cristiana, che ha messo radici in tutta Europa e fino in America, con la cosiddetta “diaspora” armena.
La sua patria vanta infatti una storia lunga quanto tormentata, come regno
autonomo già in età precristiana caduto poi sotto la dominazione di Roma. La
conversione al cristianesimo risale ufficialmente al 301 ad opera di san
Gregorio detto “l’illuminatore”, cui si deve la nascita della prima Chiesa
nazionale della cristianità, una delle antiche chiese orientali cosiddette
“precalcedoniane” perché non fecero proprie le dottrine fissate al concilio di
Calcedonia (451) sulla natura divina e insieme umana di Cristo.
Per oltre un millennio l’Armenia rimase l’unica regione cristiana dell'area mediorientale. Ma le pagine di storia più dolorosa iniziano con la spartizione a fine ‘800 tra Russia ed Impero Ottomano, a causa di contrastanti interessi strategici sul Caucaso. Gli armeni di Turchia patirono a più riprese rigurgiti di nazionalismo turco culminati nel 1915 col massacro di un milione e mezzo circa di persone, stimano diversi storici. L’Armenia entrata a far parte dell’ URSS ha vissuto invece tutta le vicende del comunismo sovietico, fino a proclamarsi indipendente nel ’91 come Repubblica di Armenia, piccolo staterello in mezzo alle montagne del Caucaso con quasi quattro milioni di abitanti.
Tutte le guerre, tutte le violenze “sono contrarie alla volontà di Dio”, è la ferma condanna espressa oggi in Vaticano da Karekin II col pensiero rivolto a quel triste passato. La sua Chiesa, in rapporto alla consistenza numerica non enorme, circa sette milioni di fedeli, è quella che ha pagato il prezzo di sangue più alto, attraversando le grandi tragedie del ‘900 appena trascorso. Ecco perché il “Catholicos” armeno già fu ospite d'onore a Roma, 14 anni fa alla solenne celebrazione voluta da Giovanni Paolo II della “Commemorazione dei testimoni della fede del XX secolo”, che ha fatto la storia di quel grandioso Anno santo.
Quelle immani sofferenze, nondimeno, non sono state affrontate e patite invano, è il pensiero di papa Francesco condiviso con Karekin II, perché “hanno portato un contributo unico ed inestimabile anche alla causa dell’unità tra i discepoli di Cristo”. Pensando infatti al secolo dei nazionalismi disumani, dei grandi genocidi di popoli, delle guerre sanguinose e delle oppressive ideologie totalitarie, non c'è probabilmente Chiesa o comunità cristiana a cui siano state risparmiate persecuzioni e tormenti. Dovremmo pensarci più spesso, sembrava voler suggerire oggi Bergoglio accogliendo il leader spirituale di questo piccolo ed eroico tassello del mosaico che è la cristianità mondiale. “L’ ecumenismo della sofferenza, l’ecumenismo del martirio, l’ecumenismo del sangue”, ha esortato difatti, “è un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese”.
Il cammino verso la sospirata unità dei cristiani ha fatto nel frattempo non piccoli passi in avanti. C'è una Commissione congiunta per il Dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali per il cui lavoro Francesco ha ringraziato cordialmente oggi il Catholicos, per l'appoggio che le garantisce. Lo stesso Karekin II poi è quasi di casa a Roma, dove è venuto già 2005, per i funerali del Papa polacco, nel 2008 e 2012, in visita a Benedetto XVI, nel 2013 per l’elezione di papa Bergoglio e infine oggi. E tutto sono fuorché formali gesti di bon ton ecumenico. Pensiamo appunto ai martiri che ci hanno tramandato la fede col sacrificio della loro vita, per concludere con Francesco che “sentiamo il dovere di percorrere questa strada di fraternità anche per il debito di gratitudine che abbiamo verso la sofferenza di tanti nostri fratelli”.
Quel “martirio” cui ogni cristiano è chiamato fino a perdere non di rado la vita fa parte di ogni epoca della millenaria e tormentata storia della Chiesa, non esclusa la più recente, giacché l’odio dei nostri persecutori è lo stesso odio del demonio per Gesù, diceva appena due giorni fa papa Francesco. Anzi, ha spiegato oggi tornando ancora sull'argomento, “il numero dei discepoli che hanno sparso il loro sangue per Cristo nelle tragiche vicende del secolo scorso è certamente superiore a quello dei martiri dei primi secoli”. E rivolgendosi al suo illustre ospite, sua santità Karekin II, che porta il solenne titolo di Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni, ha aggiunto come era doveroso che “in questo martirologio i figli della nazione armena hanno un posto d’onore”, poiché a innumerevoli uomini e donne di quel popolo è toccata l'atroce sorte di “vivere” il “mistero della Croce”, son parole del Papa, come “diretta partecipazione al calice della Passione. La loro testimonianza, tragica e alta insieme, non deve essere dimenticata”..
Il riferimento, seppur non esplicito, è alla deportazione e allo sterminio di centinaia di migliaia di armeni avvenuto nel 1915 in Turchia, dove costituiscono tutt’ora una piccola minoranza etnico-religiosa. Ma dire di più e con più forza sarebbe forse stato troppo impegnativo “anche” e “soprattutto” per il Papa, poiché la vicenda in questione rinfocola ancora un secolo dopo annose controversie e furiose polemiche, ogni volta che viene toccata, tra i popoli che furono parta in causa: da un lato la Turchia islamica erede dell’Impero ottomano, dove l’utilizzo del termine “genocidio” per lo sterminio degli armeni è addirittura punibile per legge (ma questo “negazionismo”, non meno scellerato e infame di altri, non scalda troppo i cuori dell'opinione pubblica internazionale); dall’altro un popolo di antichissima tradizione cristiana, che ha messo radici in tutta Europa e fino in America, con la cosiddetta “diaspora” armena.
Per oltre un millennio l’Armenia rimase l’unica regione cristiana dell'area mediorientale. Ma le pagine di storia più dolorosa iniziano con la spartizione a fine ‘800 tra Russia ed Impero Ottomano, a causa di contrastanti interessi strategici sul Caucaso. Gli armeni di Turchia patirono a più riprese rigurgiti di nazionalismo turco culminati nel 1915 col massacro di un milione e mezzo circa di persone, stimano diversi storici. L’Armenia entrata a far parte dell’ URSS ha vissuto invece tutta le vicende del comunismo sovietico, fino a proclamarsi indipendente nel ’91 come Repubblica di Armenia, piccolo staterello in mezzo alle montagne del Caucaso con quasi quattro milioni di abitanti.
Tutte le guerre, tutte le violenze “sono contrarie alla volontà di Dio”, è la ferma condanna espressa oggi in Vaticano da Karekin II col pensiero rivolto a quel triste passato. La sua Chiesa, in rapporto alla consistenza numerica non enorme, circa sette milioni di fedeli, è quella che ha pagato il prezzo di sangue più alto, attraversando le grandi tragedie del ‘900 appena trascorso. Ecco perché il “Catholicos” armeno già fu ospite d'onore a Roma, 14 anni fa alla solenne celebrazione voluta da Giovanni Paolo II della “Commemorazione dei testimoni della fede del XX secolo”, che ha fatto la storia di quel grandioso Anno santo.
Quelle immani sofferenze, nondimeno, non sono state affrontate e patite invano, è il pensiero di papa Francesco condiviso con Karekin II, perché “hanno portato un contributo unico ed inestimabile anche alla causa dell’unità tra i discepoli di Cristo”. Pensando infatti al secolo dei nazionalismi disumani, dei grandi genocidi di popoli, delle guerre sanguinose e delle oppressive ideologie totalitarie, non c'è probabilmente Chiesa o comunità cristiana a cui siano state risparmiate persecuzioni e tormenti. Dovremmo pensarci più spesso, sembrava voler suggerire oggi Bergoglio accogliendo il leader spirituale di questo piccolo ed eroico tassello del mosaico che è la cristianità mondiale. “L’ ecumenismo della sofferenza, l’ecumenismo del martirio, l’ecumenismo del sangue”, ha esortato difatti, “è un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese”.
Il cammino verso la sospirata unità dei cristiani ha fatto nel frattempo non piccoli passi in avanti. C'è una Commissione congiunta per il Dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali per il cui lavoro Francesco ha ringraziato cordialmente oggi il Catholicos, per l'appoggio che le garantisce. Lo stesso Karekin II poi è quasi di casa a Roma, dove è venuto già 2005, per i funerali del Papa polacco, nel 2008 e 2012, in visita a Benedetto XVI, nel 2013 per l’elezione di papa Bergoglio e infine oggi. E tutto sono fuorché formali gesti di bon ton ecumenico. Pensiamo appunto ai martiri che ci hanno tramandato la fede col sacrificio della loro vita, per concludere con Francesco che “sentiamo il dovere di percorrere questa strada di fraternità anche per il debito di gratitudine che abbiamo verso la sofferenza di tanti nostri fratelli”.
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