Un cristiano non è mai
tale “a titolo individuale”, semmai perché “appartiene”, dice Francesco; “siamo
cristiani perché apparteniamo alla Chiesa”, ecco, come fosse un cognome; “se il
nome è 'sono cristiano', il cognome è 'appartengo alla Chiesa'”.
“Le cose ripetute aiutano”, vien da commentare con la severa sapienza dei classici, “repetita iuvant”. Certo, ogni tanto “scocciant” anche, ha aggiunto poi qualche burlone in moderno latino “maccheronico”. Ma quando il busillis è di quelli fondamentali, è bene essere insistenti e possibilmente convincenti , pure a prezzo di risultare un poco noiosi .
La noia, peraltro, è una sensazione piuttosto rara da avvertire ascoltando papa Francesco. Magari non tutti potranno essere interessati ai temi che solitamente tratta, per dovere o competenza diciamo rozzamente “professionale” di supremo pasto
re del gregge planetario della Chiesa cattolica. Né, va da sé, è necessario sottoscriverne ogni idea, posizione o punto di vista, per riconoscere che comunque, spesso e volentieri, li sa affermare e sostenere con una certa brillantezza.
Come i cristiani di oggi che “non si fanno in laboratorio”, o il “fai da te” che nella Chiesa, si sappia, non esiste. Tema alquanto spinoso, questo dell'odierna ed ultima udienza generale del mercoledì prima di ben cinque settimane di meritata pausa estiva: è la cosiddetta “appartenenza alla Chiesa”, l'ha chiamata appunto sua Santità inserendola nel ciclo di catechesi appena avviato sulla “Chiesa” in genere. Quella per intenderci su cui tante buone volontà di credenti si perdono inesorabilmente.
“Talvolta capita di sentire qualcuno dire: 'Io credo in Dio, credo in Gesù, ma la Chiesa non m’interessa'", esperienza invero comune, questa evocata dal Papa; “quante volte abbiamo sentito questo? E questo non va!”, ha esclamato quindi con fare deciso; “c’è chi ritiene di poter avere un rapporto personale, diretto, immediato con Gesù Cristo al di fuori della comunione e della mediazione della Chiesa. Sono tentazioni”, badate bene, addirittura “pericolose e dannose” per Francesco.
Un utile riferimento alle sacre scritture, citato appositamente nella catechesi odierna, può essere quello del roveto ardente in cui Dio parla a Mosè, nel libro dell'Esodo: “si definisce infatti come il Dio dei padri. Non dice: Io sono l’Onnipotente…, no: Io sono il Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. In questo modo Egli si manifesta come il Dio che ha stretto un’alleanza con i nostri padri e rimane sempre fedele al suo patto, e ci chiama ad entrare in questa relazione che ci precede...”.
Un altro riferimento è di carattere più esperienziale, chiamiamolo: che nessuno diventi cristiano da sé, ma che sia la Chiesa a farlo tale, lo dimostra il semplice fatto che “se noi crediamo, se sappiamo pregare, se conosciamo il Signore e possiamo ascoltare la sua Parola, se lo sentiamo vicino e lo riconosciamo nei fratelli, è perché altri, prima di noi, hanno vissuto la fede e poi ce l’hanno trasmessa”. E costoro possono essere i genitori che han chiesto per noi il battesimo, i nonni da cui abbiamo appreso il segno della croce e le prime preghiere... “Io ricordo sempre il volto della suora che mi ha insegnato il catechismo, sempre mi viene in mente – lei è in Cielo di sicuro, perché è una santa donna”, è stata nel caso specifico l'esperienza del Papa stesso, richiamata in questa circostanza.
Ma i cristiani, terzo e decisivo step, non sono tali solo “grazie” ad altri; anche “insieme” ad altri. “Nella Chiesa”, per dirla con Bergoglio, “non esiste il 'fai da te', non esistono 'battitori liberi'”. Concetto certamente non nuovo, eppure oggi più che mai è d'uopo richiamarlo, in tempi di imperante individualismo religioso, in cui ognuno si crea il “dio” (con la minuscola) che più gli piace e torna comodo, nel grande supermarket del sacro della religiosità moderna.
“Cristo sì Chiesa no”, detto in soldoni. Una dicotomia assurda, la denunciava già una quarantina di anni fa il buon Paolo VI richiamato oggi dal successore argentino (“repetita juvant”, appunto). Poi è pure vero, ammette lo stesso Francesco, che “camminare insieme è impegnativo, e a volte può risultare faticoso: può succedere che qualche fratello o qualche sorella ci faccia problema, o ci dia scandalo…”, e' l'alibi cui siamo sempre tutti pronti a far ricorso, alle prese con le tentazioni di cui sopra, dimenticando l'ammonimento di Gesù illustrato nel Vangelo con fantasiosa dovizia di esempi; se uno, vale a dire, non è disposto a far “follie” per il “tesoro” che lui è pronto a darci, allora il regno dei cieli non è roba per lui. Ad un cercatore d'oro, chiosava saggiamente un grande apologeta della fede come don Luigi Giussani, non importa di inzaccherarsi tutto di fango per trovare anche una minuscola pepita; e perché non dovrebbe essere lo stesso per Dio?
E' quel che predicarono fino all'ossessione pure san Giovanni Paolo II e il successore Joseph Ratzinger, cui oggi Francesco ha tributato un non indifferente omaggio: “quante volte papa Benedetto ha descritto la Chiesa come un 'noi' ecclesiale”. Il teologo sapiente che costui fu lo spiegava già nei lontani anni '60, nel tormentoso indomani del Concilio Vaticano II, agli albori di quell'individualismo che poi è diventato la 'norma', quasi, del rapporto tra Chiesa e popolo dei più o meno “riottosi” fedeli: “una fede che fosse una invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già solo oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. [...] La fede esige una comunità che abbia autorità e sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri”, è scritto in un testo dall'eloquente e quasi provocatorio (per quei tempi) titolo, “Perché sono ancora nella Chiesa”.
Insomma, ultima citazione e chiudiamo, “è nei nostri fratelli e nelle nostre sorelle, con i loro doni e i loro limiti, che il Signore ci viene incontro e si fa riconoscere. E questo significa appartenere alla Chiesa”, dice oggi l'ultimo Pontefice della serie. Perciò, nome? “Cristiano!". Cognome? “Appartenenza alla Chiesa!”.
“Le cose ripetute aiutano”, vien da commentare con la severa sapienza dei classici, “repetita iuvant”. Certo, ogni tanto “scocciant” anche, ha aggiunto poi qualche burlone in moderno latino “maccheronico”. Ma quando il busillis è di quelli fondamentali, è bene essere insistenti e possibilmente convincenti , pure a prezzo di risultare un poco noiosi .
La noia, peraltro, è una sensazione piuttosto rara da avvertire ascoltando papa Francesco. Magari non tutti potranno essere interessati ai temi che solitamente tratta, per dovere o competenza diciamo rozzamente “professionale” di supremo pasto
re del gregge planetario della Chiesa cattolica. Né, va da sé, è necessario sottoscriverne ogni idea, posizione o punto di vista, per riconoscere che comunque, spesso e volentieri, li sa affermare e sostenere con una certa brillantezza.
Come i cristiani di oggi che “non si fanno in laboratorio”, o il “fai da te” che nella Chiesa, si sappia, non esiste. Tema alquanto spinoso, questo dell'odierna ed ultima udienza generale del mercoledì prima di ben cinque settimane di meritata pausa estiva: è la cosiddetta “appartenenza alla Chiesa”, l'ha chiamata appunto sua Santità inserendola nel ciclo di catechesi appena avviato sulla “Chiesa” in genere. Quella per intenderci su cui tante buone volontà di credenti si perdono inesorabilmente.
“Talvolta capita di sentire qualcuno dire: 'Io credo in Dio, credo in Gesù, ma la Chiesa non m’interessa'", esperienza invero comune, questa evocata dal Papa; “quante volte abbiamo sentito questo? E questo non va!”, ha esclamato quindi con fare deciso; “c’è chi ritiene di poter avere un rapporto personale, diretto, immediato con Gesù Cristo al di fuori della comunione e della mediazione della Chiesa. Sono tentazioni”, badate bene, addirittura “pericolose e dannose” per Francesco.
Un utile riferimento alle sacre scritture, citato appositamente nella catechesi odierna, può essere quello del roveto ardente in cui Dio parla a Mosè, nel libro dell'Esodo: “si definisce infatti come il Dio dei padri. Non dice: Io sono l’Onnipotente…, no: Io sono il Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. In questo modo Egli si manifesta come il Dio che ha stretto un’alleanza con i nostri padri e rimane sempre fedele al suo patto, e ci chiama ad entrare in questa relazione che ci precede...”.
Un altro riferimento è di carattere più esperienziale, chiamiamolo: che nessuno diventi cristiano da sé, ma che sia la Chiesa a farlo tale, lo dimostra il semplice fatto che “se noi crediamo, se sappiamo pregare, se conosciamo il Signore e possiamo ascoltare la sua Parola, se lo sentiamo vicino e lo riconosciamo nei fratelli, è perché altri, prima di noi, hanno vissuto la fede e poi ce l’hanno trasmessa”. E costoro possono essere i genitori che han chiesto per noi il battesimo, i nonni da cui abbiamo appreso il segno della croce e le prime preghiere... “Io ricordo sempre il volto della suora che mi ha insegnato il catechismo, sempre mi viene in mente – lei è in Cielo di sicuro, perché è una santa donna”, è stata nel caso specifico l'esperienza del Papa stesso, richiamata in questa circostanza.
Ma i cristiani, terzo e decisivo step, non sono tali solo “grazie” ad altri; anche “insieme” ad altri. “Nella Chiesa”, per dirla con Bergoglio, “non esiste il 'fai da te', non esistono 'battitori liberi'”. Concetto certamente non nuovo, eppure oggi più che mai è d'uopo richiamarlo, in tempi di imperante individualismo religioso, in cui ognuno si crea il “dio” (con la minuscola) che più gli piace e torna comodo, nel grande supermarket del sacro della religiosità moderna.
“Cristo sì Chiesa no”, detto in soldoni. Una dicotomia assurda, la denunciava già una quarantina di anni fa il buon Paolo VI richiamato oggi dal successore argentino (“repetita juvant”, appunto). Poi è pure vero, ammette lo stesso Francesco, che “camminare insieme è impegnativo, e a volte può risultare faticoso: può succedere che qualche fratello o qualche sorella ci faccia problema, o ci dia scandalo…”, e' l'alibi cui siamo sempre tutti pronti a far ricorso, alle prese con le tentazioni di cui sopra, dimenticando l'ammonimento di Gesù illustrato nel Vangelo con fantasiosa dovizia di esempi; se uno, vale a dire, non è disposto a far “follie” per il “tesoro” che lui è pronto a darci, allora il regno dei cieli non è roba per lui. Ad un cercatore d'oro, chiosava saggiamente un grande apologeta della fede come don Luigi Giussani, non importa di inzaccherarsi tutto di fango per trovare anche una minuscola pepita; e perché non dovrebbe essere lo stesso per Dio?
E' quel che predicarono fino all'ossessione pure san Giovanni Paolo II e il successore Joseph Ratzinger, cui oggi Francesco ha tributato un non indifferente omaggio: “quante volte papa Benedetto ha descritto la Chiesa come un 'noi' ecclesiale”. Il teologo sapiente che costui fu lo spiegava già nei lontani anni '60, nel tormentoso indomani del Concilio Vaticano II, agli albori di quell'individualismo che poi è diventato la 'norma', quasi, del rapporto tra Chiesa e popolo dei più o meno “riottosi” fedeli: “una fede che fosse una invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già solo oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. [...] La fede esige una comunità che abbia autorità e sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri”, è scritto in un testo dall'eloquente e quasi provocatorio (per quei tempi) titolo, “Perché sono ancora nella Chiesa”.
Insomma, ultima citazione e chiudiamo, “è nei nostri fratelli e nelle nostre sorelle, con i loro doni e i loro limiti, che il Signore ci viene incontro e si fa riconoscere. E questo significa appartenere alla Chiesa”, dice oggi l'ultimo Pontefice della serie. Perciò, nome? “Cristiano!". Cognome? “Appartenenza alla Chiesa!”.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.