L’FBI cattura Abu Khattala e tenta di estradarlo tra le proteste libiche. Lo scandalo che travolse la Clinton e la CIA mostra le responsabilità politiche di Washington e il sostegno alle milizie armate anti-Gheddafi.
NenaNews - A quasi due anni dall’attacco all’ambasciata statunitense di Bengasi, Washington ha catturato il suo uomo: martedì esercito e FBI hanno arrestato Ahmed Abu Khattala, sospettato di essere dietro l’uccisione di quattro cittadini statunitensi, ambasciatore compreso. L’11 settembre 2012 la violenta morte di Christopher Stevens fu un terremoto per l’amministrazione Obama e per il segretario di Stato, Hillary Clinton. La Clinton, che non ha mai nascosto l’intenzione di candidarsi alla presidenza nel 2016, ha perso in Cirenaica ogni opportunità di vittoria.
Con la cattura di Abu Khattala, leader del gruppo islamista Ansar al-Sharia a Bengasi e primo sospetto a venir acciuffato, la Casa Bianca spera di mettere una pietra sopra lo scandalo che travolse i vertici della CIA. Martedì il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha reso nota la cattura, giunta dopo un’operazione segreta scattata nel fine settimana: «Posso confermare che il nostro esercito, insieme al personale delle forze dell’ordine, ha catturato domenica Ahmed Abu Khattala, figura chiave dell’attentato contro il consolato Usa di Bengasi». La mente di quell’attacco – in cui morirono anche due contractor della CIA e un funzionario della sicurezza – è ora agli arresti su una nave e sarà portato negli Stati Uniti per essere processato. Khattala era ricercato da un anno, quando il procuratore distrettuale di Washington lo incriminò, insieme a altri 10 sospetti, per l’attentato di Bengasi.
Obama gongola: «Ora dovrà fare i conti con il sistema di giustizia statunitense». Una promessa che non va giù alle autorità libiche, già deboli perché alle prese con una crisi interna senza precedenti: il Pentagono ha taciuto sull’eventuale collaborazione di Tripoli, che potrebbe essere stata lasciata all’oscuro del raid, ma a scatenare le proteste libiche è l’intenzione di estradare Khattala negli Stati uniti. «Non abbiamo ricevuto notifiche – ha commentato il ministro della Giustizia al-Marghani – Non ci aspettavamo la mortificazione della nostra scena politica». Gli ha fatto eco il Ministero degli Esteri, che chiede il ritorno di Khattala in Libia e accusa Washington di aver violato la sovranità libica.
Poco importa: quello che sta a cuore a Washington è mettere a tacere le critiche piovute sui servizi segreti e l’inchiesta avviata dai repubblicani per indagare gli errori commessi dalla Casa Bianca (e indirettamente per attaccare la politica mediorientale di Obama). Nel settembre 2012 la Libia era scossa da una violenta crisi interna, con le milizie armate dall’esterno per far cadere il colonnello Gheddafi intenzionate a non abbandonare le armi. Le proteste si infiammarono ulteriormente la tensione per l’uscita di un film negli Usa, diretto dal regista israeliano Sam Bacile, ritenuto una grave offesa al profeta Maometto, dipinto come un donnaiolo e un pazzo.
Manifestazioni di proteste dilagarono in tutta la regione, ma l’attacco di Bengasi – inizialmente descritto come una reazione popolare alla pellicola – si dimostrò ben altro: «Troppo coordinato e professionale per essere spontaneo», lo definì una fonte interna all’intelligence Usa. Assalitori ben armati, addestrati, che chiaramente avevano pianificato da tempo quell’operazione. Subito sulla stampa si fece strada il nome di Ansar al Sharia, organizzazione salafita. Ma poco dopo l’ombra del sospetto si è allungata anche sulla CIA, travolgendo la carriera del generale Petraeus, e sull’allora segretario di Stato Clinton. In molti sollevarono dubbi: l’amministrazione avrebbe finto di non sapere di possibili attacchi per non mettere in pericolo le presidenziali del 6 novembre 2012? Un’accusa che Obama ha subito rigettato. In ogni caso, prima e dopo l’attentato CIA, Pentagono e Casa Bianca fecero ben poco, non prevenendolo e intervenendo solo mezz’ora dopo l’inizio dell’attacco.
Funzionari dell’intelligence Usa ammisero che, all’epoca, la CIA era impegnata in una missione segreta all’interno della sede diplomatica in Libia. Dei 30 membri dello staff evacuati dall’ambasciata di Bengasi, solo sette erano dipendenti del Dipartimento di Stato. Il resto, funzionari dell’intelligence lì per un’operazione di contro-terrorismo.
Ma al di là di missioni segrete e mancata messa in sicurezza della sede diplomatica, è a livello politico che l’amministrazione Washington va giudicata: in prima fila per promuovere la caduta di Gheddafi, all’epoca ex pariah della comunità internazionale, poi fatto rientrare per la finestra dagli interessi energetici europei, gli USA hanno guidato la NATO nella distruzione del paese, armando milizie islamiste e utilizzando – accusano giornalisti americani – quegli stessi gruppi per rifornire le opposizioni siriane. Oggi la Libia, che il pugno di Gheddafi seppe tenere unita, è profondamente divisa tra Tripolitania e Cirenaica, in balia di miliziani armati dall’Occidente.
NenaNews - A quasi due anni dall’attacco all’ambasciata statunitense di Bengasi, Washington ha catturato il suo uomo: martedì esercito e FBI hanno arrestato Ahmed Abu Khattala, sospettato di essere dietro l’uccisione di quattro cittadini statunitensi, ambasciatore compreso. L’11 settembre 2012 la violenta morte di Christopher Stevens fu un terremoto per l’amministrazione Obama e per il segretario di Stato, Hillary Clinton. La Clinton, che non ha mai nascosto l’intenzione di candidarsi alla presidenza nel 2016, ha perso in Cirenaica ogni opportunità di vittoria.
Con la cattura di Abu Khattala, leader del gruppo islamista Ansar al-Sharia a Bengasi e primo sospetto a venir acciuffato, la Casa Bianca spera di mettere una pietra sopra lo scandalo che travolse i vertici della CIA. Martedì il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha reso nota la cattura, giunta dopo un’operazione segreta scattata nel fine settimana: «Posso confermare che il nostro esercito, insieme al personale delle forze dell’ordine, ha catturato domenica Ahmed Abu Khattala, figura chiave dell’attentato contro il consolato Usa di Bengasi». La mente di quell’attacco – in cui morirono anche due contractor della CIA e un funzionario della sicurezza – è ora agli arresti su una nave e sarà portato negli Stati Uniti per essere processato. Khattala era ricercato da un anno, quando il procuratore distrettuale di Washington lo incriminò, insieme a altri 10 sospetti, per l’attentato di Bengasi.
Obama gongola: «Ora dovrà fare i conti con il sistema di giustizia statunitense». Una promessa che non va giù alle autorità libiche, già deboli perché alle prese con una crisi interna senza precedenti: il Pentagono ha taciuto sull’eventuale collaborazione di Tripoli, che potrebbe essere stata lasciata all’oscuro del raid, ma a scatenare le proteste libiche è l’intenzione di estradare Khattala negli Stati uniti. «Non abbiamo ricevuto notifiche – ha commentato il ministro della Giustizia al-Marghani – Non ci aspettavamo la mortificazione della nostra scena politica». Gli ha fatto eco il Ministero degli Esteri, che chiede il ritorno di Khattala in Libia e accusa Washington di aver violato la sovranità libica.
Poco importa: quello che sta a cuore a Washington è mettere a tacere le critiche piovute sui servizi segreti e l’inchiesta avviata dai repubblicani per indagare gli errori commessi dalla Casa Bianca (e indirettamente per attaccare la politica mediorientale di Obama). Nel settembre 2012 la Libia era scossa da una violenta crisi interna, con le milizie armate dall’esterno per far cadere il colonnello Gheddafi intenzionate a non abbandonare le armi. Le proteste si infiammarono ulteriormente la tensione per l’uscita di un film negli Usa, diretto dal regista israeliano Sam Bacile, ritenuto una grave offesa al profeta Maometto, dipinto come un donnaiolo e un pazzo.
Manifestazioni di proteste dilagarono in tutta la regione, ma l’attacco di Bengasi – inizialmente descritto come una reazione popolare alla pellicola – si dimostrò ben altro: «Troppo coordinato e professionale per essere spontaneo», lo definì una fonte interna all’intelligence Usa. Assalitori ben armati, addestrati, che chiaramente avevano pianificato da tempo quell’operazione. Subito sulla stampa si fece strada il nome di Ansar al Sharia, organizzazione salafita. Ma poco dopo l’ombra del sospetto si è allungata anche sulla CIA, travolgendo la carriera del generale Petraeus, e sull’allora segretario di Stato Clinton. In molti sollevarono dubbi: l’amministrazione avrebbe finto di non sapere di possibili attacchi per non mettere in pericolo le presidenziali del 6 novembre 2012? Un’accusa che Obama ha subito rigettato. In ogni caso, prima e dopo l’attentato CIA, Pentagono e Casa Bianca fecero ben poco, non prevenendolo e intervenendo solo mezz’ora dopo l’inizio dell’attacco.
Funzionari dell’intelligence Usa ammisero che, all’epoca, la CIA era impegnata in una missione segreta all’interno della sede diplomatica in Libia. Dei 30 membri dello staff evacuati dall’ambasciata di Bengasi, solo sette erano dipendenti del Dipartimento di Stato. Il resto, funzionari dell’intelligence lì per un’operazione di contro-terrorismo.
Ma al di là di missioni segrete e mancata messa in sicurezza della sede diplomatica, è a livello politico che l’amministrazione Washington va giudicata: in prima fila per promuovere la caduta di Gheddafi, all’epoca ex pariah della comunità internazionale, poi fatto rientrare per la finestra dagli interessi energetici europei, gli USA hanno guidato la NATO nella distruzione del paese, armando milizie islamiste e utilizzando – accusano giornalisti americani – quegli stessi gruppi per rifornire le opposizioni siriane. Oggi la Libia, che il pugno di Gheddafi seppe tenere unita, è profondamente divisa tra Tripolitania e Cirenaica, in balia di miliziani armati dall’Occidente.
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