Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952 e muore ad Agrigento il 21 settembre 1990 per mano della “Stidda”, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra. In occasione della ricorrenza della sua morte la Perfetta Letizia ha il piacere di ricordare la figura del valoroso magistrato con una serie di articoli a lui dedicati. In questo primo articolo vogliamo presentarne nelle linee essenziali l’esperienza umana e di fede, la passione per il lavoro, il sacrificio.
di Bartolo Salone
Rosario Livatino, il “piccolo giudice” come ebbe a definirlo Leonardo Sciascia sulle pagine di “Porte aperte” nel 1987 (“Il dirlo piccolo mi è parso ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato”), venne assassinato il 21 settembre 1990 da uomini della Stidda armati di mitra al termine di un turbolento inseguimento automobilistico sul viadotto Gasena, a pochi chilometri da Agrigento.
Il giovane magistrato terminava così i suoi giorni all’età di neppure 38 anni, a giudizio di Giovanni Paolo II “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Nel giudice Livatino, infatti, il senso dello Stato conviveva con una profondissima fede religiosa, che egli manifestò apertamente in diversi suoi interventi pubblici e che espresse umilmente nel privato, tanto che nella prima pagina dell’agenda da lavoro rinvenuta accanto al suo corpo esanime spiccava la sigla STD, che – come i biografi hanno appurato – sta per SUB TUTELA DEI, cioè “sotto la protezione di Dio”. La fede religiosa era per Rosario ciò che dava senso al suo stesso lavoro, che egli interpretò come un’autentica missione a servizio del prossimo.
L’esistenza del giudice Livatino offre quindi il destro per riflettere sul rapporto, non sempre compreso, tra fede e diritto. Rapporto imprescindibile nella vicenda umana del Nostro, ove le due dimensioni si sono intrecciate a tal punto da aver reso “quasi” necessaria l’apertura del processo di beatificazione, tuttora in corso nella fase diocesana, il 21 settembre 2011 (cioè nel ventunesimo anniversario della morte). Come osserva Ida Abate, ex insegnante di liceo di Livatino, nel libro a lui dedicato dal titolo “Il piccolo giudice” (Editrice Ave, 2005), Rosario seppe anteporre alla propria vita l’etica del dovere, vissuto con fedeltà incondizionata agli insegnamenti evangelici, “reo solo di essere pericolosamente onesto”. Lo spirito di servizio, l’amore di chi dà la vita per gli amici, la preghiera umile e silenziosa sono infatti tutti valori evangelici che il “piccolo giudice” seppe incarnare nella sua breve, ma intensa, esistenza con singolare eroismo.
Rosario era ben consapevole dei rischi che correva, al punto da provarne un’angoscia mortale. Egli - come ebbe ad annotare nella sua agenda personale - vedeva “nero” nel suo futuro, la sua anima era “a pezzi”, soffriva di una tristezza “cupa e cronica”. Come non cogliere in questa sua angoscia dell’anima un riflesso di quella solitudine e di quella amarezza che Cristo stesso provò sul monte degli Ulivi alla vigilia della sua passione? Il cristiano non è in verità uno che non prova mai paura, che non soffre amarezza e senso di abbandono, un superuomo che non risente delle debolezze della sua umanità, chiuso in un inumano stato di imperturbabilità, ma è uno che trova in Dio la forza per andare avanti nella pratica del bene, costi quel che costi. E a Livatino, come a Cristo, il coraggio di non fermarsi costò la vita.
Rosario, ancora, testimoniò il valore della preghiera che si fa vita: attivo in gioventù nell’Azione Cattolica, non trascurò mai l’aspetto spirituale dell’esistenza, pur in mezzo ai molteplici impegni lavorativi, pur fra i tormenti e le crisi interiori. Non solo la sua giornata cominciava in chiesa dove ogni mattina, prima di varcare la soglia del Tribunale, si raccoglieva in contemplazione davanti al tabernacolo, ma il suo stesso lavoro di magistrato era per lui preghiera, come si evince dalle sue stesse parole (tratte da una conferenza che egli tenne proprio sul tema “Fede e diritto” il 30 aprile 1986): “Compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere … che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Dalla religione cristiana il giudice Livatino apprese inoltre la preziosissima lezione dell’umiltà. Umiltà che significa saper ascoltare le ragioni dell’altro, anche (e forse, soprattutto) di chi è sottoposto al nostro giudizio, nella lucida consapevolezza che tutti saremo giudicati al termine dei nostri giorni da un Giudice sicuramente migliore di noi. “Il magistrato – osservava Livatino – deve al momento del decidere dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società … disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamenti da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”. Da cristiano, Livatino comprendeva perfettamente che il compito del magistrato non è solo quello di dare meccanica attuazione al comando astratto di legge nei singoli casi, ma è quello molto più arduo “di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine”; verità che egli ritrovava nelle parole che Gesù, a proposito dello spigolare nei campi in giorno di sabato, rivolse ai farisei: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Ma soprattutto – cosa inconsueta per un magistrato, il quale per sua cultura è portato a trovare nella Legge la risposta ultima ad ogni dubbio e la soluzione ad ogni male – il giudice Livatino era fermamente convinto della necessità del “superamento della giustizia attraverso la carità”, come principio universale che si impone non solo al magistrato nell’atto del decidere, ma in generale a tutti gli uomini, perché in definitiva Dio non è Legge, ma Amore. Livatino comprendeva bene che questa nella sostanza è la vera novità del messaggio cristiano, l’elemento che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, dalla schiavitù della Legge alla libertà dei figli di Dio, al punto da ricavarne un elemento distintivo e caratterizzante della concezione “cristiana” della giustizia rispetto a quella “laica”. “I non cristiani – sostiene il giudice Livatino – credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità”. Per il cristiano, infatti, “alla fine giustizia e carità combaciano”, poiché, come ricordato dall’allora presidente del Tribunale di Milano Piero Pajardi, di cui Rosario riporta le parole a conclusione dell’intervento su citato, “il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”.
di Bartolo Salone
Rosario Livatino, il “piccolo giudice” come ebbe a definirlo Leonardo Sciascia sulle pagine di “Porte aperte” nel 1987 (“Il dirlo piccolo mi è parso ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato”), venne assassinato il 21 settembre 1990 da uomini della Stidda armati di mitra al termine di un turbolento inseguimento automobilistico sul viadotto Gasena, a pochi chilometri da Agrigento.
Il giovane magistrato terminava così i suoi giorni all’età di neppure 38 anni, a giudizio di Giovanni Paolo II “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Nel giudice Livatino, infatti, il senso dello Stato conviveva con una profondissima fede religiosa, che egli manifestò apertamente in diversi suoi interventi pubblici e che espresse umilmente nel privato, tanto che nella prima pagina dell’agenda da lavoro rinvenuta accanto al suo corpo esanime spiccava la sigla STD, che – come i biografi hanno appurato – sta per SUB TUTELA DEI, cioè “sotto la protezione di Dio”. La fede religiosa era per Rosario ciò che dava senso al suo stesso lavoro, che egli interpretò come un’autentica missione a servizio del prossimo.
L’esistenza del giudice Livatino offre quindi il destro per riflettere sul rapporto, non sempre compreso, tra fede e diritto. Rapporto imprescindibile nella vicenda umana del Nostro, ove le due dimensioni si sono intrecciate a tal punto da aver reso “quasi” necessaria l’apertura del processo di beatificazione, tuttora in corso nella fase diocesana, il 21 settembre 2011 (cioè nel ventunesimo anniversario della morte). Come osserva Ida Abate, ex insegnante di liceo di Livatino, nel libro a lui dedicato dal titolo “Il piccolo giudice” (Editrice Ave, 2005), Rosario seppe anteporre alla propria vita l’etica del dovere, vissuto con fedeltà incondizionata agli insegnamenti evangelici, “reo solo di essere pericolosamente onesto”. Lo spirito di servizio, l’amore di chi dà la vita per gli amici, la preghiera umile e silenziosa sono infatti tutti valori evangelici che il “piccolo giudice” seppe incarnare nella sua breve, ma intensa, esistenza con singolare eroismo.
Rosario era ben consapevole dei rischi che correva, al punto da provarne un’angoscia mortale. Egli - come ebbe ad annotare nella sua agenda personale - vedeva “nero” nel suo futuro, la sua anima era “a pezzi”, soffriva di una tristezza “cupa e cronica”. Come non cogliere in questa sua angoscia dell’anima un riflesso di quella solitudine e di quella amarezza che Cristo stesso provò sul monte degli Ulivi alla vigilia della sua passione? Il cristiano non è in verità uno che non prova mai paura, che non soffre amarezza e senso di abbandono, un superuomo che non risente delle debolezze della sua umanità, chiuso in un inumano stato di imperturbabilità, ma è uno che trova in Dio la forza per andare avanti nella pratica del bene, costi quel che costi. E a Livatino, come a Cristo, il coraggio di non fermarsi costò la vita.
Rosario, ancora, testimoniò il valore della preghiera che si fa vita: attivo in gioventù nell’Azione Cattolica, non trascurò mai l’aspetto spirituale dell’esistenza, pur in mezzo ai molteplici impegni lavorativi, pur fra i tormenti e le crisi interiori. Non solo la sua giornata cominciava in chiesa dove ogni mattina, prima di varcare la soglia del Tribunale, si raccoglieva in contemplazione davanti al tabernacolo, ma il suo stesso lavoro di magistrato era per lui preghiera, come si evince dalle sue stesse parole (tratte da una conferenza che egli tenne proprio sul tema “Fede e diritto” il 30 aprile 1986): “Compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere … che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Dalla religione cristiana il giudice Livatino apprese inoltre la preziosissima lezione dell’umiltà. Umiltà che significa saper ascoltare le ragioni dell’altro, anche (e forse, soprattutto) di chi è sottoposto al nostro giudizio, nella lucida consapevolezza che tutti saremo giudicati al termine dei nostri giorni da un Giudice sicuramente migliore di noi. “Il magistrato – osservava Livatino – deve al momento del decidere dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società … disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamenti da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”. Da cristiano, Livatino comprendeva perfettamente che il compito del magistrato non è solo quello di dare meccanica attuazione al comando astratto di legge nei singoli casi, ma è quello molto più arduo “di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine”; verità che egli ritrovava nelle parole che Gesù, a proposito dello spigolare nei campi in giorno di sabato, rivolse ai farisei: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Ma soprattutto – cosa inconsueta per un magistrato, il quale per sua cultura è portato a trovare nella Legge la risposta ultima ad ogni dubbio e la soluzione ad ogni male – il giudice Livatino era fermamente convinto della necessità del “superamento della giustizia attraverso la carità”, come principio universale che si impone non solo al magistrato nell’atto del decidere, ma in generale a tutti gli uomini, perché in definitiva Dio non è Legge, ma Amore. Livatino comprendeva bene che questa nella sostanza è la vera novità del messaggio cristiano, l’elemento che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, dalla schiavitù della Legge alla libertà dei figli di Dio, al punto da ricavarne un elemento distintivo e caratterizzante della concezione “cristiana” della giustizia rispetto a quella “laica”. “I non cristiani – sostiene il giudice Livatino – credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità”. Per il cristiano, infatti, “alla fine giustizia e carità combaciano”, poiché, come ricordato dall’allora presidente del Tribunale di Milano Piero Pajardi, di cui Rosario riporta le parole a conclusione dell’intervento su citato, “il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”.
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