domenica, settembre 21, 2014
Nella relazione dal titolo “Il ruolo del giudice nella società che cambia” da lui tenuta il 7 aprile 1984 presso il Rotary Club di Canicattì, Rosario Livatino ci consegna il suo testamento spirituale, delineando brillantemente il suo ideale di magistrato. Un insegnamento valido anche per i magistrati e la magistratura di oggi. (articoli precedenti)

di Bartolo Salone

Diverse e più che mai attuali le questioni qui affrontate, sulle quali dobbiamo procedere necessariamente per cenni. In primo luogo, Rosario comincia con l’esaminare la questione, molto dibattuta negli anni ’80 (ma che a causa della ripresa della crisi occupazionale sta ritornando prepotentemente d’attualità), del rapporto tra il giudice e il mondo dell’economia e del lavoro. Infatti, nell’ambito della corrente di pensiero denominata “uso alternativo del diritto”, diffusasi in Italia sul finire degli anni ’60 soprattutto ad opera dei circoli e degli accademici di sinistra, si propose l’idea di un ruolo più attivo del giudice all’interno delle dinamiche economico-sociali. Il presupposto assiomatico da cui questa teoria trae le sue mosse è che la giurisprudenza sia chiamata ad una funzione di perenne adeguamento della legge (spesso incapace di tenere il passo con i tempi) ai cambiamenti del costume sociale: adeguamento da ottenere per il tramite dell’interpretazione giudiziale, anche contro la lettera della legge e l’intenzione del legislatore storico. Questa teoria, ove riferita al settore dei conflitti tra capitale e lavoro, propone però un dilemma difficilmente risolvibile dal punto di vista giuridico: se cioè il giudice debba farsi garante degli interessi “forti”, consentendo – specialmente nei periodi di crisi economica – alle classi imprenditoriali di riprendere padronanza nel campo dell’iniziativa privata e nel settore degli investimenti produttivi, al di là dei “lacci e lacciuoli” derivanti da una stretta osservanza della legge, oppure se al contrario debba farsi garante degli interessi “deboli”, ossia degli interessi dei lavoratori contro l’eccessiva concentrazione del potere economico, piegando a tale scopo l’interpretazione della legge medesima. Appare di tutta evidenza che un siffatto dilemma non può essere risolto sul piano strettamente giuridico, richiedendo necessariamente l’adesione ad una precisa opzione politico-ideologica: adesione che il Nostro ritiene assolutamente incompatibile con la visione tradizionale del magistrato quale organo “super partes”, le cui decisioni non dovrebbero dipendere dalle sue “simpatie” per questa o per quella classe sociale.

Altra questione, mai sopita nel dibattito pubblico, è quella dei rapporti tra il magistrato e il mondo della politica. E’ giusto che il magistrato sia iscritto a partiti politici o che partecipi come candidato alle elezioni politiche? Sul punto il giudice Livatino propone delle riflessioni di sconcertante attualità, delineando così il suo idealtipo di magistrato. Il problema dell’adesione ai partiti politici dei magistrati, secondo il Nostro, va risolto invero in senso decisamente negativo. Affinché l’iscrizione dei magistrati ai partiti politici possa risultare accettabile, infatti, “si dovrebbe ammettere che il giudice, nel momento in cui si iscrive, sia non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito come tale, nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi compagni di fede non si aspettino assolutamente nulla da lui nel momento in cui egli dovesse occuparsi di quei casi”. E ciò “sul piano umano – secondo Rosario – sarebbe troppo pretendere”! Ragioni ancor più gravi ostano altresì alla “possibilità per il giudice di entrare a far parte di sette od associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto riserbo sui nomi dei propri aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta filantropia le proprie finalità e i propri obiettivi” (evidente riferimento alla Massoneria, sebbene non espressamente indicata come tale nella relazione).

Come considerare, poi, il caso di un magistrato che, ad un certo punto della sua carriera, si candida ad una elezione politica ed ottiene una carica? Sul diritto in sé del magistrato di candidarsi alle politiche non vi sarebbe in principio nulla da eccepire, poiché si tratta di un diritto che la nostra Costituzione riconosce a tutti i cittadini, magistrati compresi. Ma gravissimo è il caso che si pone allorquando il mandato venga a cessare. Infatti, “un parlamentare – osserva con sano realismo il giudice Livatino – anche quando si tenga rigorosamente nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie e si assoggetta infine ad una abitudine di disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e dei gruppi parlamentari) in contrasto con la libertà di giudizio e l’indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché, tranne casi eccezionali, l’abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario tra il singolo e la struttura”. Si pone inoltre un problema di tutela dell’immagine esterna del magistrato, il quale non solo deve “essere”, ma anche “apparire” indipendente, nuocendo all’autorevolezza dell’ordine giudiziario anche il solo sospetto che una sentenza o una iniziativa giudiziaria possa essere determinata dall’affiliazione del magistrato a questo o a quel partito politico o dall’attività svolta nel periodo in cui si è trovato ad esercitare l’ufficio di parlamentare. “Sarebbe quindi sommamente opportuno – conclude perentorio – che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere e importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”.

Quanto detto però – precisa Livatino – non deve portare a dubitare della possibilità, per il giudice, di formarsi una propria coscienza politica, un proprio convincimento sui temi fondamentali della convivenza sociale. Nessuno, in altri termini, può contestare al giudice “il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione delle norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche”, purché “la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto e non come il portato della autocollocazione nell’area di questo o quel gruppo politico o sindacale, così da apparire in tutto o in parte dipendente da quella collocazione”.

Infine, il giudice dovrà preservare con cura, come anticipato, la propria “immagine esterna”, in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario, astenendosi, se necessario, da comportamenti privati o da frequentazioni che, sia pur leciti, possano incrinare la fiducia del cittadino sulla sua indipendenza. E’ pertanto da rigettare, secondo Livatino, l’affermazione per la quale, una volta compiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice, al pari di ogni altro cittadino, possa fare della propria vita privata ciò che vuole. Ma, al di sopra di tutto, è importante che il giudice offra di sé stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona che, oltre che seria, equilibrata e responsabile, sia anche “comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire”. Chi domanda giustizia, infatti, deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà, senza pregiudizio alcuno. Solo così “il cittadino potrà vincere la naturale avversione a raccontare le proprie cose ad uno sconosciuto e fidarsi della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole”. La preparazione tecnico-giuridica, la serietà e il rigore morale – sembra dirci Rosario Livatino – sono condizioni sicuramente necessarie per l’esercizio della professione di magistrato, ma risultano insufficienti se non accompagnate dal senso di umanità. E’ questo il testamento spirituale che il “piccolo giudice” consegna ai magistrati e alla magistratura oggi.

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