giovedì, ottobre 09, 2014
“Ci dicono che vengono fatte molte donazioni ma qui gli aiuti arrivano col contagocce. Abbiamo bisogni urgenti e vitali e la nostra è una corsa contro il tempo”: a parlare con la MISNA è un operatore di Caritas Guinea in prima linea nella lotta a ebola, contattato a Kankan, terza città del paese e capoluogo dell’Alta Guinea con circa 200.000 abitanti.  

Misna - “Qui serve tutto: cloro e sapone per i kit sanitari, ma soprattutto riso, legumi e vari
condimenti per aiutare la popolazione a nutrirsi correttamente” prosegue l’operatore, sottolineando che “nell’ultimo periodo si sono moltiplicati i problemi alimentari come conseguenza diretta della chiusura dei confini dei paesi vicini. Purtroppo se le gente mangia male si indebolisce ed è più vulnerabile al virus e reagisce meno bene alle cure”.

L’interlocutore tiene a evidenziare quanto è “fondamentale la cooperazione tra i vari partner locali e internazionali per sconfiggere ebola”. Nella regione di Kankan la Caritas diocesana ha lavorato in stretto collegamento tra gli altri con Jesuit Refugee Service (Jrs), Caritas Internationalis e il Fondo dell’Onu per l’infanzia (Unicef).

Ma per gli operatori della Caritas a Kankan, la principale difficoltà nella lotta alla febbre emorragica rimane “la grande resistenza della popolazione alle campagne di sensibilizzazione: nonostante il numero crescente di decessi e la psicosi diffusa, sono ancora in troppi a non riconoscere l’esistenza della malattia”.

Lo scenario è molto simile nella provincia di N’zerekore (sud-est), epicentro dell’epidemia scoppiata a inizio anno. “Con il Programma alimentare mondiale stiamo distribuendo viveri e portiamo avanti iniziative di sensibilizzazione. Per fortuna il problema di resistenza degli abitanti comincia a risolversi e ciò è un primo segnale incoraggiante” ci riferisce Alexandre Kolié, il direttore di Caritas a N’zerekore, capoluogo della Guinea Forestière (sud), dove il mese scorso nove operatori sanitari e dirigenti amministrativi sono stati uccisi dalla popolazione del remoto villaggio di Wamé (o Womey).

La paura di contrarre la malattia ha raggiunto da tempo anche Conakry, la capitale, dove vengono centralizzate le attività governative e non governative di lotta a ebola. L’esecutivo ha deciso di rinviare a data da destinarsi la riapertura delle scuole in tutto il paese – inizialmente prevista per lo scorso 25 settembre – con la speranza che il quadro sanitario nazionale si stabilizzi. “Anche qui si avverte la psicosi. Spesso nelle moschee ci sono poche persone che vegliano i corpi dei morti, col timore che il decesso sia stato causato da ebola” dice alla MISNA Gérard Ansou Bangoura, direttore della Caritas diocesana a Conakry. Anche le attività commerciali si svolgono a rilento da quando i paesi vicini hanno chiuso i confini. “All’ingresso di ogni ufficio della pubblica amministrazione sono stati collocati distributori di sapone per lavarsi le mani e le regole elementari di igiene vengono sempre più rispettate” prosegue la stessa fonte. In base all’ultimo bilancio a disposizione di Caritas Conakry, dall’inizio dell’epidemia lo scorso febbraio in Guinea ci sono stati 1097 casi registrati di cui 598 decessi, 499 pazienti guariti, con un tasso di mortalità del 54%. Un dato considerato incoraggiante dalle autorità sanitarie.

Tra i sopravvissuti c’è il dottor Paul Koulémou, 28 anni, ammalatosi lo scorso 19 agosto dopo aver visitato una paziente – successivamente deceduta – all’ospedale militare di Conakry. “All’inizio l’epidemia ci ha colti impreparati e con pochi mezzi a disposizione. Ora per fortuna grazie all’aiuto di tutti stiamo fronteggiando in modo più consapevole l’emergenza sanitaria, anche se servono ancora molti aiuti materiali e umani” dice alla MISNA Koulémou, guarito dopo due settimane di cure presso il centro di lotta a ebola di Donka. “I miei colleghi sono stati bravi e io sono stato fortunato. Ora ho deciso di portare avanti la mia lotta e sono coinvolto nelle campagne di sensibilizzazione, cruciali per stroncare l’epidemia ancora prima del contagio” dice il giovane medico, la cui famiglia è stata messa in quarantena e non ha registrato alcun contagio.


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