Il discorso di Gesù sulle Beatitudini rappresenta un punto di svolta cruciale per la storia dell’umanità, segnando un mutamento radicale di prospettiva etica generale: agli ultimi di questo mondo viene riconosciuta infatti la dignità di soggetto morale, contro quella visione elitaria e intellettualistica della vita morale propria dell’antichità pagana. (leggi le Beatitudini secondo Matteo)
di Bartolo Salone
Non è un caso che la liturgia della Parola della solennità di Tutti i Santi sia incentrata sul brano evangelico delle Beatitudini secondo Matteo. Il ben noto “discorso della montagna” (Mt 5, 1-12) rappresenta invero e a buon diritto la “magna carta” della vita cristiana, identificando lo “stile” specifico con cui il cristiano è chiamato a vivere la Legge di Dio, a mettere in pratica i comandamenti sull’esempio di Gesù.
La Legge antica non è superata, i comandamenti conservano la loro perdurante validità (“Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” afferma Gesù); e tuttavia ci viene ricordato che la loro osservanza esteriore non giova alla salvezza, perché Iddio guarda al cuore e non alle apparenze (“se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” ammonisce ancora Gesù).
La Legge di Dio – secondo l’insegnamento del Cristo – produce in altri termini frutti di salvezza solo quando viene interiorizzata, se diventa cioè ragione di vita per il credente: non può bastare – come per le leggi umane – una semplice osservanza esteriore, ma la Legge divina richiede che a questa si accompagni anche la sincera adesione dell’interno volere. Solo a questa condizione, infatti, l’osservanza dei comandamenti ci inserisce all’interno di una relazione interpersonale che ci rende realmente “amici di Dio”, e non semplici “esecutori” di una volontà che promana dall’alto (ma percepita, in mancanza di una adesione interiore, sostanzialmente come “estranea”).
Le beatitudini pongono pertanto l’accento sulla necessità dei “poveri di Israele” e, più in generale, di tutti gli uomini di fare affidamento a Dio in ogni circostanza della vita. Un errore da evitare, a questo punto, è quello di interpretare il discorso della montagna in chiave riduttivamente “sociale”, quasi che le Beatitudini individuino dei meri gruppi sociali o delle categorie esistenziali (quali possono essere i poveri, i sofferenti, gli affamati, i perseguitati) che siano destinatarie di una speciale attenzione e sollecitudine da parte di Dio e niente di più.
E’ lo stesso Vangelo, in verità, a mostrarsi refrattario a questo tipo di interpretazione e a fornirci la giusta chiave di comprensione. Infatti, l’evangelista Matteo, più ancora che Luca, parte dalla considerazione della condizione di marginalità sociale dei primi discepoli di Gesù per ricavarne un insegnamento di carattere morale. In questa prospettiva, quindi, non il povero in quanto tale si salva, ma colui che sa farsi povero in spirito, imitando Cristo nella mitezza e nell’umiltà di cuore; non l’afflitto in quanto tale, ma solo quello che – in mezzo alle sofferenze della vita – sa aprirsi a Dio, accettando di farsi consolare da lui; non semplicemente chi ha fame e sete, ma colui che – pur nella miseria – non perde il senso della giustizia; non il perseguitato in sé, ma colui che nella persecuzione conserva la capacità di amare, finanche il suo nemico.
L’evangelista, insomma, nel riportare questo memorabile discorso di Gesù, non intende affatto rappresentare dei gruppi o delle categorie sociali, ma piuttosto sottolineare delle qualità morali o, per essere più precisi, presentare dei modelli di santità, perché in definitiva dietro ciascuna beatitudine si nasconde un aspetto ben preciso della vita di Gesù. E’ come se ci venisse chiesto: Vuoi essere santo? Allora – questa è la risposta – renditi povero, umile, mite, misericordioso, puro di cuore come nostro Signore; lotta per la pace e per la giustizia, proprio come ha fatto Gesù!
Difficilmente riusciremo ad esprimere con la nostra esistenza di poveri peccatori tutte quante le beatitudini, ma – come ho imparato da un sacerdote di cui porto un felice ricordo – per essere santi basta riuscire ad incarnare nella propria vita anche una soltanto di queste beatitudini, poiché ogni beatitudine costituisce in sé un riflesso della vita divina di Gesù.
Se da un lato, le beatitudini non possono essere intese in chiave puramente sociale o peggio ancora “classista” (quasi che dalla salvezza siano esclusi per principio quanti appartengono alle classi sociali più elevate), dall’altro lato non può rimanere privo di significato che Gesù prenda spunto proprio dalle categorie più umili e dalle diverse forme di marginalità sociale della sua epoca per illustrare il suo messaggio. In un contesto culturale come quello dell’antico ebraismo, che concepiva la miseria e la malattia come una sorta di castigo del cielo per i peccati commessi dalla persona medesima o dai suoi avi, proclamare “beati” i poveri e gli afflitti significava riscattare in effetti la condizione degli ultimi, non più “maledetti”, ma al contrario destinatari di una speciale predilezione da parte di Dio.
Tuttavia, nel discorso della montagna si avverte un netto distacco non solo dalla mentalità giudaica, ma anche, e in misura decisamente maggiore, dalla cultura classica. Il discorso della montagna segna, infatti, una vera rivoluzione copernicana nel campo dell’etica, giacché con il cristianesimo viene ad essere superata quella visione aristocratica della virtù (in greco, areté) che caratterizzava l’etica classica. La virtù, da questo momento in poi, non sarà più appannaggio degli “aristoi” (ossia dei notabili) o dei soli sapienti. Piuttosto, le beatitudini ci dicono che la santità è per tutti. A tutti è offerta, in altre parole, la possibilità di raggiungere il vertice della perfezione morale, a prescindere dal ceto, dal censo, dalla cultura, dall’intelligenza. E a loro volta, le condizioni di miseria, malattia, marginalità sociale, così come le persecuzioni, il disprezzo e l’insuccesso nelle imprese umane perdono quella connotazione radicalmente negativa, di non-senso, che avevano nella cultura pagana e, in parte, nell’ebraismo contemporaneo a Gesù, per acquistare una loro dimensione positiva, potendo appunto diventare – ove sostenute con animo forte e con fiducia nella divina grazia – occasione di santità.
Molte volte, seguendo una lettura di stampo marxista, si è rivolta al cristianesimo l’accusa di aver frustrato le aspirazioni di progresso e di emancipazione delle classi meno abbienti mediante la presentazione di una prospettiva di riscatto esclusivamente ultraterrena, tutta proiettata nell’aldilà. In realtà, il cristianesimo ha inciso molto più in profondità, riconoscendo agli ultimi di questa terra la dignità di soggetto morale. Il discorso della montagna segna dunque una vera e propria rivoluzione in campo morale, necessario preludio delle successive rivoluzioni in campo economico e sociale che avrebbero interessato gli ultimi di questa terra nei secoli a venire.
Non è un caso che la liturgia della Parola della solennità di Tutti i Santi sia incentrata sul brano evangelico delle Beatitudini secondo Matteo. Il ben noto “discorso della montagna” (Mt 5, 1-12) rappresenta invero e a buon diritto la “magna carta” della vita cristiana, identificando lo “stile” specifico con cui il cristiano è chiamato a vivere la Legge di Dio, a mettere in pratica i comandamenti sull’esempio di Gesù.
La Legge antica non è superata, i comandamenti conservano la loro perdurante validità (“Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” afferma Gesù); e tuttavia ci viene ricordato che la loro osservanza esteriore non giova alla salvezza, perché Iddio guarda al cuore e non alle apparenze (“se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” ammonisce ancora Gesù).
La Legge di Dio – secondo l’insegnamento del Cristo – produce in altri termini frutti di salvezza solo quando viene interiorizzata, se diventa cioè ragione di vita per il credente: non può bastare – come per le leggi umane – una semplice osservanza esteriore, ma la Legge divina richiede che a questa si accompagni anche la sincera adesione dell’interno volere. Solo a questa condizione, infatti, l’osservanza dei comandamenti ci inserisce all’interno di una relazione interpersonale che ci rende realmente “amici di Dio”, e non semplici “esecutori” di una volontà che promana dall’alto (ma percepita, in mancanza di una adesione interiore, sostanzialmente come “estranea”).
Le beatitudini pongono pertanto l’accento sulla necessità dei “poveri di Israele” e, più in generale, di tutti gli uomini di fare affidamento a Dio in ogni circostanza della vita. Un errore da evitare, a questo punto, è quello di interpretare il discorso della montagna in chiave riduttivamente “sociale”, quasi che le Beatitudini individuino dei meri gruppi sociali o delle categorie esistenziali (quali possono essere i poveri, i sofferenti, gli affamati, i perseguitati) che siano destinatarie di una speciale attenzione e sollecitudine da parte di Dio e niente di più.
E’ lo stesso Vangelo, in verità, a mostrarsi refrattario a questo tipo di interpretazione e a fornirci la giusta chiave di comprensione. Infatti, l’evangelista Matteo, più ancora che Luca, parte dalla considerazione della condizione di marginalità sociale dei primi discepoli di Gesù per ricavarne un insegnamento di carattere morale. In questa prospettiva, quindi, non il povero in quanto tale si salva, ma colui che sa farsi povero in spirito, imitando Cristo nella mitezza e nell’umiltà di cuore; non l’afflitto in quanto tale, ma solo quello che – in mezzo alle sofferenze della vita – sa aprirsi a Dio, accettando di farsi consolare da lui; non semplicemente chi ha fame e sete, ma colui che – pur nella miseria – non perde il senso della giustizia; non il perseguitato in sé, ma colui che nella persecuzione conserva la capacità di amare, finanche il suo nemico.
L’evangelista, insomma, nel riportare questo memorabile discorso di Gesù, non intende affatto rappresentare dei gruppi o delle categorie sociali, ma piuttosto sottolineare delle qualità morali o, per essere più precisi, presentare dei modelli di santità, perché in definitiva dietro ciascuna beatitudine si nasconde un aspetto ben preciso della vita di Gesù. E’ come se ci venisse chiesto: Vuoi essere santo? Allora – questa è la risposta – renditi povero, umile, mite, misericordioso, puro di cuore come nostro Signore; lotta per la pace e per la giustizia, proprio come ha fatto Gesù!
Difficilmente riusciremo ad esprimere con la nostra esistenza di poveri peccatori tutte quante le beatitudini, ma – come ho imparato da un sacerdote di cui porto un felice ricordo – per essere santi basta riuscire ad incarnare nella propria vita anche una soltanto di queste beatitudini, poiché ogni beatitudine costituisce in sé un riflesso della vita divina di Gesù.
Se da un lato, le beatitudini non possono essere intese in chiave puramente sociale o peggio ancora “classista” (quasi che dalla salvezza siano esclusi per principio quanti appartengono alle classi sociali più elevate), dall’altro lato non può rimanere privo di significato che Gesù prenda spunto proprio dalle categorie più umili e dalle diverse forme di marginalità sociale della sua epoca per illustrare il suo messaggio. In un contesto culturale come quello dell’antico ebraismo, che concepiva la miseria e la malattia come una sorta di castigo del cielo per i peccati commessi dalla persona medesima o dai suoi avi, proclamare “beati” i poveri e gli afflitti significava riscattare in effetti la condizione degli ultimi, non più “maledetti”, ma al contrario destinatari di una speciale predilezione da parte di Dio.
Tuttavia, nel discorso della montagna si avverte un netto distacco non solo dalla mentalità giudaica, ma anche, e in misura decisamente maggiore, dalla cultura classica. Il discorso della montagna segna, infatti, una vera rivoluzione copernicana nel campo dell’etica, giacché con il cristianesimo viene ad essere superata quella visione aristocratica della virtù (in greco, areté) che caratterizzava l’etica classica. La virtù, da questo momento in poi, non sarà più appannaggio degli “aristoi” (ossia dei notabili) o dei soli sapienti. Piuttosto, le beatitudini ci dicono che la santità è per tutti. A tutti è offerta, in altre parole, la possibilità di raggiungere il vertice della perfezione morale, a prescindere dal ceto, dal censo, dalla cultura, dall’intelligenza. E a loro volta, le condizioni di miseria, malattia, marginalità sociale, così come le persecuzioni, il disprezzo e l’insuccesso nelle imprese umane perdono quella connotazione radicalmente negativa, di non-senso, che avevano nella cultura pagana e, in parte, nell’ebraismo contemporaneo a Gesù, per acquistare una loro dimensione positiva, potendo appunto diventare – ove sostenute con animo forte e con fiducia nella divina grazia – occasione di santità.
Molte volte, seguendo una lettura di stampo marxista, si è rivolta al cristianesimo l’accusa di aver frustrato le aspirazioni di progresso e di emancipazione delle classi meno abbienti mediante la presentazione di una prospettiva di riscatto esclusivamente ultraterrena, tutta proiettata nell’aldilà. In realtà, il cristianesimo ha inciso molto più in profondità, riconoscendo agli ultimi di questa terra la dignità di soggetto morale. Il discorso della montagna segna dunque una vera e propria rivoluzione in campo morale, necessario preludio delle successive rivoluzioni in campo economico e sociale che avrebbero interessato gli ultimi di questa terra nei secoli a venire.
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