lunedì, gennaio 19, 2015
Il ministro della Salute del Mali ha annunciato la fine dell'epidemia di Ebola nel Paese, dopo un periodo di 42 giorni senza nuovi contagi.  

Radio Vaticana - Il Mali ha registrato 6 morti dall'inizio dell'epidemia, che si è diffusa in Africa occidentale ed ha ucciso oltre 8.400 persone in Guinea, Sierra Leone e Liberia. In questi Paesi l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala il calo nelle ultime settimane di nuovi contagi. Roberta Barbi ha chiesto a Miguel Lupiz, infermiere di Medici senza Frontiere appena tornato dalla Sierra Leone, se si può parlare d’inversione di tendenza:



R. – Parlare di una inversione di tendenza? Noi incrociamo le dita e speriamo assolutamente di sì. I numeri effettivamente nei Paesi stanno calando, ma la cosa importante non è calare la guardia, perché il problema di ebola non è assolutamente risolto e rimane una malattia estremamente contagiosa. Il lavoro enorme che stiamo facendo sul territorio è quello di ricerca dei casi, villaggio per villaggio, casa per casa, per andare a cercare – diciamo – l’ebola dove si può nascondere: dobbiamo avere anche la certezza che i numeri calano perché calano i pazienti.

D. – Cosa ha contribuito maggiormente a questo risultato? Le campagne nazionali e internazionali hanno dato i loro frutti?

R. – Il tema della sensibilizzazione è stato molto importante. Se voi andate in uno qualunque dei tre Paesi, cartelloni luminosi, cartelloni per strada, numeri di telefono ai quali la gente può fare riferimento sono costanti e sono dappertutto. Questo sta funzionando ed è determinante sotto due aspetti: il fatto che le persone si avvicinino ai centri ebola ci permette anzitutto di prenderli in tempo e quindi di aumentare la possibilità di guarigione; il secondo aspetto fondamentale è quello di togliere - letteralmente – le persone dalla strada e quindi evitare ulteriori contagi.

D. – Il maggiore coinvolgimento delle comunità locali nella risposta alla malattia, che si traduce nel cambiamento di alcune usanze in merito ai rituali di guarigione e alle sepolture, è stato determinante?

R. – Sì! Adesso la gente sta cominciando a capire il pericolo, il rischio della gestione dei funerali. Il fatto che in certe comunità abbiamo avuto il permesso di cremare i corpi e che in altre abbiamo avuto il permesso di seppellire i corpi nelle body-bags, in queste sacche enormi di plastica, ci permette di gestire in prima persona – insieme ad altri gruppi – le sepolture, allontanare i corpi dalle persone e quindi abbassare il contagio in maniera molto importante.

D. – Restano, comunque, 50 focolai, alcuni in nuove aree. La battaglia, dunque, non è ancora terminata?

R. - No, la battaglia non è terminata! Nel Centro ebola di Freetown, in questo momento – si tratta di un centro con 100 posti letto- è tutto pieno e la situazione pediatrica è molto impegnativa. Quindi c’è bisogno di un supporto di più. È vero, sì, che i numeri stanno calando, ma l’ebola è ancora lì.

D. – La popolazione ha paura?

R. – La popolazione ha molta paura! All’inizio questo ha provocato il panico totale, al punto di avere medici, infermieri e personale sanitario che fuggivano: erano i primi a sparire! Bisogna anche capire che sono stati i primi a morire, perché trattavano pazienti con una sintomatologia che all’inizio è molto simile a un’influenza: in realtà – poveretti – non sapevano cosa avessero tra le mani.


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