mercoledì, gennaio 21, 2015
Sotto pressione, il governo giapponese si è impegnato a impedire manifestazioni, anche verbali, che incitino all’odio.  

Misna - Definendo queste forme di espressione “assolutamente imperdonabili”, il ministro della Giustizia Yoko Kamikawa ha segnalato l’avvio da questa di una campagna di sensibilizzazione per sradicare tendenze xenofobiche o comunque discriminatorie.
Espressioni di odio, comunque manifestate, “alimentano il senso di insicurezza e di odio, minano la dignità degli individui e creano solo maggiore discriminazione e quindi non possono essere permesse”.

Le iniziative che si svilupperanno per iniziativa locale o governativa non possono tuttavia, per diversi gruppi della società civile, sostituirsi a una legge specifica che proibisca la pratica. Lo hanno segnalato la settimana scorsa 20 assemblee prefetturali e municipali, tra cui quelle importanti di Osaka, Saitama e Tottori. L’estate 2014 una commissione Onu sulla discriminazione razziale aveva chiesto al governo di Tokyo interventi legislativi adeguati a una realtà sempre più complessa, multiculturale e multietnica. Richieste ancora oggi rifiutate dal governo, che ha indicato di volere restare nell’ambito delle leggi vigenti.

A riaccendere la tensione su un problema non nuovo, sensibile in Giappone perché si connette con problematiche discriminatorie non riconosciute ufficialmente ma per questo più persistenti, la sentenza di un tribunale locale, a dicembre che ha definito illegali le attività dell’associazione nazionalista Zaitokukai. Il gruppo, forte di 10.000 iscritti, aveva organizzato nel 2009 e 2010 proteste fuori da una scuola elementare di Kyoto frequentata da nordcoreani, sostenendo che i parenti degli studenti sarebbero spie di Pyongyang e che i coreani residenti abuserebbero di iniziative e servizi che ritengono esclusiva dei soli giapponesi. Nel 2013, lo steso gruppo aveva insultato e minacciato i coreani del distretto di Shin-Okubo a Tokyo. Proteste e denunce hanno portato all’attenzione delle autorità questi casi, punta dell’iceberg di una situazione che non solo contrasta con i principi democratici del paese, ma rende ancora più tesi i rapporti con la comunità coreana (almeno 500.000 membri) discendenti in buona parte di individui costretti a lavorare in Giappone durante il controllo coloniale della Penisola coreana.


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