giovedì, gennaio 29, 2015
In occasione della pubblicazione di un nuovo documento sulla Libia, Amnesty International ha chiesto urgentemente l'adozione di sanzioni mirate e l'avvio di procedimenti giudiziari, anche attraverso la Corte penale internazionale, per porre fine alla serie di sequestri, torture, uccisioni sommarie e ulteriori abusi, equivalenti in alcuni casi a crimini di guerra, commessi dalle forze rivali che si contengono la città di Bengasi. 

Amnesty - Il documento, intitolato "La discesa di Bengasi nel caos", descrive una serie di terribili abusi commessi dai combattenti del Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi - una coalizione di milizie e di gruppi armati islamisti - e dalle forze che portano avanti la cosiddetta "Operazione dignità" lanciata dal generale Khalifa Haftar nel maggio 2014. "Negli ultimi mesi, a causa delle continue rappresaglie tra le forze rivali, Bengasi è precipitata nel caos e nell'assenza di legge" - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. "Se la comunità internazionale non mostrerà l'intenzione di indagare sui crimini di guerra e chiamare a rispondere i loro autori, il ciclo di abusi e di sofferenza finirà per peggiorare. Questo clima d'impunità e di assenza di legge deve finire" - ha proseguito Sahraoui.

Amnesty International chiede al Consiglio di sicurezza di imporre sanzioni mirate, tra cui il divieto di viaggio e il congelamento dei beni patrimoniali, nei confronti delle persone coinvolte nelle violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, ai sensi della risoluzione 2174 dell'agosto 2014.

L'organizzazione per i diritti umani sollecita inoltre la Corte penale internazionale, competente sui crimini di guerra e crimini contro l'umanità commessi in Libia, a comprendere nelle sue indagini quelli perpetrati dai gruppi armati e dalle milizie a partire dal febbraio 2011. Finora, la Corte ha avviato indagini solo sui reati commessi durante la rivolta e il conflitto armato del 2011.

I negoziati delle ultime settimane a Ginevra hanno aperto uno spiraglio di speranza che i libici possano riuscire a far risalire il loro paese dal baratro.

"I tentativi di raggiungere un compromesso politico risulteranno privi di senso se non verrà affrontata la questione dei diritti umani. Le violazioni commesse dalle parti in conflitto stanno alimentando il rancore e non possono essere nascoste sotto il tappeto" - ha commentato Sahraoui.

"L'impegno dei partecipanti ai negoziati di pace per il rispetto della legge e dei diritti umani è il primo passo determinante, ma le parole da sole non cambieranno la realtà sul terreno. Occorre che i responsabili dei crimini siano chiamati a rispondere per porre fine al ciclo di abusi" - ha aggiunto Sahraoui.

"Per mesi, i politici e i gruppi armati libici si sono combattuti per decidere chi legittimamente rappresentasse il popolo libico. Ma quello che sta succedendo a Bengasi ci mostra che tutte le parti hanno commesso gravi abusi dei diritti umani e che i cittadini comuni libici sono finiti in mezzo al tiro incrociato. Ora è obbligatorio che tutto questo finisca" - ha spiegato Sahraoui.

Quasi quattro anni dopo la sollevazione del popolo libico contro il colonnello Muammar Gheddafi, la maggior parte delle speranze in un futuro stabile sono andate distrutte.

La comunità internazionale e soprattutto gli stati che presero parte alle operazioni militari della Nato nel 2011, hanno la responsabilità di affrontare il deterioramento della situazione in Libia, che corre il rischio di dar luogo a un conflitto ancora più ampio, con pericolose conseguenze a livello regionale.

Il documento di Amnesty International descrive la complessa rete di gruppi armati responsabili della violenza che ha sconvolto la città di Bengasi negli ultimi mesi e rivela dettagli raccapriccianti su sequestri, uccisioni sommarie e ritrovamenti di corpi con segni di tortura.

L'organizzazione per i diritti umani denuncia anche omicidi per ragioni politiche di attivisti, leader religiosi e giornalisti. Gli autori restano sconosciuti ma in molti casi gli abitanti di Bengasi hanno puntato il dito contro i gruppi legati al Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi, in particolare Ansar al-Shari'a, che intende applicare in Libia una rigida interpretazione della legge islamica.

Con la scusa di combattere il terrorismo e riportare l'ordine, il 15 ottobre 2014 le forze dell'Operazione dignità hanno lanciato un'operazione militare per riprendere il controllo di Bengasi.

Tre mesi intensi di scontri e bombardamenti indiscriminati contro le zone residenziali, oltre agli attacchi aerei dell'Operazione dignità, hanno provocato ampi danni in alcune aree, in particolare quelle del porto commerciale e del centro della città, come il quartiere al-Sabri.

Numerose abitazioni di persone sospettate di essere legate ai gruppi islamisti sono state saccheggiate, vandalizzate, incendiate e in alcuni casi rase al suolo.

Le conseguenze, dal punto di vista umanitario, sono drammatiche. Almeno 90.000 persone hanno lasciato la città. Molte altre devono affrontare la mancanza d'acqua, l'aumento dei prezzi dei generi alimentari, le continue interruzioni della corrente elettrica e la scarsità di gas per cucinare e di benzina. I combattimenti hanno anche provocato la penuria di scorte di medicinali e di personale negli ospedali pubblici, alcuni dei quali sono stati evacuati dopo essere stati colpiti. Tutte le scuole restano chiuse.

Rapimenti e uccisioni sommarie

Secondo la Mezzaluna araba della Libia, oltre 260 tra civili e combattenti sono risultati scomparsi tra giugno e novembre del 2014. Molti rapimenti sono stati eseguiti dai gruppi affiliati al Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi. Nella maggior parte dei casi, le vittime sono state prelevate dalle loro abitazioni o in strada da uomini armati dal volto travisato. Gli stessi operatori sanitari sono stati presi di mira, spesso per essere costretti a curare i feriti del Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi negli ospedali da campo.

Le forze dell'Operazione dignità hanno a loro volta catturato, torturato e ucciso in modo sommario combattenti e civili. Alcuni sono stati presi dopo che erano stati additati sui social media come membri dei gruppi armati islamisti.Molte famiglie hanno scoperto che i loro cari erano stati uccisi solo dopo aver identificato i loro corpi in fotografie e video postati su Facebook.

In un caso, i social media hanno diffuso le foto di almeno 17 corpi non identificati sepolti ad al-Marj, 90 chilometri a est di Bengasi. Amnesty International ha verificato che almeno quatto uomini erano stati uccisi in modo sommario dopo essere stati arrestati dalle forze dell'Operazione dignità ad al-Bayda.

La sorella di Anas al-Khitab, una delle vittime, ha riferito ad Amnesty International che il cadavere era stato riconosciuto da un altro fratello nelle fotografie pubblicate su Facebook.

"L'autopsia ha rivelato che Anas al-Khitab è stato ucciso da un proiettile alla nuca, ma non ha fatto alcun riferimento ai segni di tortura. Mio fratello, che è medico, quei segni li ha visti e ha concluso che si era trattato di un pestaggio" - ha detto la donna.


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