L’ABC dell’omelia nel nuovo “Direttorio” vaticano
di Paolo Fucili
La prima ragion d’essere della buona, vecchia “predica” - e probabilmente anche l’unica - è presto detta: “convertire al Vangelo l’esistenza di chi ascolta”. Va da sé dunque che quella dell’“omileta” o “predicatore” è una missione “essenziale per la vita della Chiesa”. Peccato perciò che di tante “performance” dal pulpito l’effetto sia tutto fuorché quello auspicato.
Urge dunque capire l’omelia anzitutto cos’è, poi come prepararla (e quando, non all’ultimo momento!), come “calibrarla” di volta in volta sull’uditorio eccetera eccetera, è l’impresa non nuova – già gli scaffali delle librerie pullulano di libri del genere – in cui si è cimentato il dicastero vaticano per la liturgia, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Il risultato, condensato in 150 sintetiche (tutto sommato) pagine, è il verde “Direttorio omiletico” fresco di stampa, presentato oggi ai cronisti in Vaticano.
Furono i vescovi del Sinodo del 2008, dedicato non a caso alla Bibbia, a lanciare l’idea di redigerlo, constatato in quella variegata assise che non c’è landa dell’orbe cattolico in cui le omelie non lascino a desiderare, spesso e volentieri. E Benedetto XVI approvò di buon grado. Poi venne Francesco, che nella sua Evangelii gaudium – “manifesto” programmatico del pontificato – riserva non poco spazio all’omelia, come se avesse una priorità, gratificando inoltre il predicatore impreparato di graziosi epiteti quali “disonesto”, “irresponsabile”, “falso profeta”, “truffatore”, “vuoto ciarlatano” addirittura. E pure a voce non ha lesinato sferzanti reprimende (“via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente”, per dirne una, strapazzò i sacerdoti ad Assisi, il 4 ottobre del 2013).
Che il “mestiere” di omileta non sia ad ogni modo uno scherzo lo conferma il Direttorio stesso, quando nel definire l’omelia si dilunga in descrizioni tutte curiosamente in negativo: ovvero “non è un sermone su un tema astratto”, né “un puro esercizio di esegesi biblica”, né “un insegnamento catechistico”, tantomeno “va impiegata come tempo di testimonianza personale del predicatore”. Collegarsi poi a “fatti e questioni” di attualità va bene, e pure “condividere i frutti dello studio per comprendere un brano della scrittura”, o “dimostrare il nesso che corre tra Parola di Dio e dottrina della Chiesa”: ma non è quel che conta davvero.
L’omileta, ammonisce severo un altro passo, si preoccupi piuttosto che “chi lo ascolta possa avvertire la sua fede nella potenza di Dio”; e neppure si sogni di “ridurre lo standard del messaggio al livello della propria testimonianza personale per paura di essere accusato di non praticare ciò che predica”. Però nemmeno si perda d’animo, considerando i non pochi precedenti illustri che dovettero molto far forza a se stessi, stando alle sacre Scritture: vedi Mosè, che “soffriva di una difficoltà di linguaggio”, Geremia che “si considerava troppo giovane per predicare” e nientemeno che l’apostolo Paolo, che “per sua ammissione sperimentava tremore e trepidazione”, li elenca il paragrafo 3, quasi a rincuorare i predicatori di oggi.
Il concetto, è scritto poco dopo, è in definitiva illustrare “le letture e le preghiere della celebrazione in modo che il loro significato sia rischiarato dalla morte e resurrezione del Signore”. Ogni omelia, infatti, è tenuta per definizione durante una celebrazione liturgica (perciò come è ovvio, solo il sacramento dell’ordine abilita vescovi, sacerdoti o diaconi a pronunciarla, e nessun altro). Anzi, “essa è una sorta di estensione della proclamazione delle stesse letture”, e pure i lettori (spesso ahinoi piuttosto improvvisati anch’essi) facciano quindi attenzione, perché già “una cattiva proclamazione pregiudica la comprensione dell’omelia”.
Alla parte prima che introduce a grandi linee l’argomento segue una seconda sezione che passa dettagliatamente in rassegna tutto il calendario liturgico, nel tentativo di esemplificare quel che precede. Inutile nondimeno cercare troppi consigli minuti o indicazioni specifiche: “siamo infatti in un campo troppo variabile del ministero”, ragiona il Direttorio, “sia per le differenze culturali da un’assemblea all’altra, sia per i talenti e i limiti del singolo omileta”.
Costui sappia da par suo che “l’arte oratoria o di parlare in pubblico, compreso l’uso appropriato della voce e persino del gesto, contribuisce all’efficacia dell’omelia”. Tanto che “io dico sempre ai miei studenti, quando tenete un’omelia provate poi a riascoltarvi, mettendo un registratore”, annotava stamane in sala stampa il sottosegretario del dicastero padre Maggioni. E tuttavia l’essenziale, al netto di studi, esercitazioni, trucchi del mestiere è “che l’omileta ponga la parola di Dio al centro della propria vita spirituale, conosca bene il suo popolo, rifletta sugli avvenimenti del suo tempo, cerchi incessantemente di sviluppare quelle capacità che lo aiutano a predicare in maniera appropriata e soprattutto che, cosciente della propria povertà spirituale, invochi nella fede lo Spirito Santo...” e così sia.
Il che comporta, altra severa raccomandazione, una preparazione non affrettata, “un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione e creatività pastorale”, suggerisce la già citata Evangelii gaudium del Papa. Si tratterà di studiare (con l’ausilio anche di commentari, dizionari e strumenti del genere) ma soprattutto il pregare “resta essenziale”, magari secondo il collaudato schema della lectio divina, cominciando già “diversi giorni prima” a preparare l’omelia della domenica.
E anche alle omelie di matrimoni e funerali, il Direttorio specifica in dettaglio, ci si prepari con speciale cura, come occasioni di parlare anche a “acattolici” o “cattolici che quasi mai partecipano all’Eucarestia, o danno l’impressone di aver perso la fede. E ancora, ascoltare i consigli che pure qualche ascoltatore avesse da dare, suggerivano in sala stampa, fare abbondante uso di aneddoti e immagini, in ogni caso mai dare per terminata la propria formazione di predicatore, spesso in realtà già carente – è il vero nodo della questione – fin dagli anni del seminario.
E se proprio le performance non migliorano, a dispetto di tanti sforzi, che almeno si abbia cura di esser brevi, ammonisce non tanto il libretto in questione, quanto l’antica, pragmatica saggezza del popolo cristiano. Inutile nascondersi che questo, non altri, è il nocciolo di tanti lamenti e critiche al celebrante di turno. E tuttavia, curiosamente, solo pochi cenni il Direttorio riserva alla cruciale questione: l’omelia deve sì “essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione”, è il parere di Francesco riportato nè più meno al paragrafo 6. “E’difficile dar precetti, ci vuol sempre buon senso” per padre Maggioni, oltre magari ad un po’ di pazienza in più: perché nonostante tutto, parola del guineano cardinal Sarah, presidente della Congregazione che firma il libro, “in Occidente superare i venti minuti sembra troppo, in Africa... non basta!”.
di Paolo Fucili
La prima ragion d’essere della buona, vecchia “predica” - e probabilmente anche l’unica - è presto detta: “convertire al Vangelo l’esistenza di chi ascolta”. Va da sé dunque che quella dell’“omileta” o “predicatore” è una missione “essenziale per la vita della Chiesa”. Peccato perciò che di tante “performance” dal pulpito l’effetto sia tutto fuorché quello auspicato.
Urge dunque capire l’omelia anzitutto cos’è, poi come prepararla (e quando, non all’ultimo momento!), come “calibrarla” di volta in volta sull’uditorio eccetera eccetera, è l’impresa non nuova – già gli scaffali delle librerie pullulano di libri del genere – in cui si è cimentato il dicastero vaticano per la liturgia, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Il risultato, condensato in 150 sintetiche (tutto sommato) pagine, è il verde “Direttorio omiletico” fresco di stampa, presentato oggi ai cronisti in Vaticano.
Furono i vescovi del Sinodo del 2008, dedicato non a caso alla Bibbia, a lanciare l’idea di redigerlo, constatato in quella variegata assise che non c’è landa dell’orbe cattolico in cui le omelie non lascino a desiderare, spesso e volentieri. E Benedetto XVI approvò di buon grado. Poi venne Francesco, che nella sua Evangelii gaudium – “manifesto” programmatico del pontificato – riserva non poco spazio all’omelia, come se avesse una priorità, gratificando inoltre il predicatore impreparato di graziosi epiteti quali “disonesto”, “irresponsabile”, “falso profeta”, “truffatore”, “vuoto ciarlatano” addirittura. E pure a voce non ha lesinato sferzanti reprimende (“via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente”, per dirne una, strapazzò i sacerdoti ad Assisi, il 4 ottobre del 2013).
Che il “mestiere” di omileta non sia ad ogni modo uno scherzo lo conferma il Direttorio stesso, quando nel definire l’omelia si dilunga in descrizioni tutte curiosamente in negativo: ovvero “non è un sermone su un tema astratto”, né “un puro esercizio di esegesi biblica”, né “un insegnamento catechistico”, tantomeno “va impiegata come tempo di testimonianza personale del predicatore”. Collegarsi poi a “fatti e questioni” di attualità va bene, e pure “condividere i frutti dello studio per comprendere un brano della scrittura”, o “dimostrare il nesso che corre tra Parola di Dio e dottrina della Chiesa”: ma non è quel che conta davvero.
L’omileta, ammonisce severo un altro passo, si preoccupi piuttosto che “chi lo ascolta possa avvertire la sua fede nella potenza di Dio”; e neppure si sogni di “ridurre lo standard del messaggio al livello della propria testimonianza personale per paura di essere accusato di non praticare ciò che predica”. Però nemmeno si perda d’animo, considerando i non pochi precedenti illustri che dovettero molto far forza a se stessi, stando alle sacre Scritture: vedi Mosè, che “soffriva di una difficoltà di linguaggio”, Geremia che “si considerava troppo giovane per predicare” e nientemeno che l’apostolo Paolo, che “per sua ammissione sperimentava tremore e trepidazione”, li elenca il paragrafo 3, quasi a rincuorare i predicatori di oggi.
Il concetto, è scritto poco dopo, è in definitiva illustrare “le letture e le preghiere della celebrazione in modo che il loro significato sia rischiarato dalla morte e resurrezione del Signore”. Ogni omelia, infatti, è tenuta per definizione durante una celebrazione liturgica (perciò come è ovvio, solo il sacramento dell’ordine abilita vescovi, sacerdoti o diaconi a pronunciarla, e nessun altro). Anzi, “essa è una sorta di estensione della proclamazione delle stesse letture”, e pure i lettori (spesso ahinoi piuttosto improvvisati anch’essi) facciano quindi attenzione, perché già “una cattiva proclamazione pregiudica la comprensione dell’omelia”.
Alla parte prima che introduce a grandi linee l’argomento segue una seconda sezione che passa dettagliatamente in rassegna tutto il calendario liturgico, nel tentativo di esemplificare quel che precede. Inutile nondimeno cercare troppi consigli minuti o indicazioni specifiche: “siamo infatti in un campo troppo variabile del ministero”, ragiona il Direttorio, “sia per le differenze culturali da un’assemblea all’altra, sia per i talenti e i limiti del singolo omileta”.
Costui sappia da par suo che “l’arte oratoria o di parlare in pubblico, compreso l’uso appropriato della voce e persino del gesto, contribuisce all’efficacia dell’omelia”. Tanto che “io dico sempre ai miei studenti, quando tenete un’omelia provate poi a riascoltarvi, mettendo un registratore”, annotava stamane in sala stampa il sottosegretario del dicastero padre Maggioni. E tuttavia l’essenziale, al netto di studi, esercitazioni, trucchi del mestiere è “che l’omileta ponga la parola di Dio al centro della propria vita spirituale, conosca bene il suo popolo, rifletta sugli avvenimenti del suo tempo, cerchi incessantemente di sviluppare quelle capacità che lo aiutano a predicare in maniera appropriata e soprattutto che, cosciente della propria povertà spirituale, invochi nella fede lo Spirito Santo...” e così sia.
Il che comporta, altra severa raccomandazione, una preparazione non affrettata, “un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione e creatività pastorale”, suggerisce la già citata Evangelii gaudium del Papa. Si tratterà di studiare (con l’ausilio anche di commentari, dizionari e strumenti del genere) ma soprattutto il pregare “resta essenziale”, magari secondo il collaudato schema della lectio divina, cominciando già “diversi giorni prima” a preparare l’omelia della domenica.
E anche alle omelie di matrimoni e funerali, il Direttorio specifica in dettaglio, ci si prepari con speciale cura, come occasioni di parlare anche a “acattolici” o “cattolici che quasi mai partecipano all’Eucarestia, o danno l’impressone di aver perso la fede. E ancora, ascoltare i consigli che pure qualche ascoltatore avesse da dare, suggerivano in sala stampa, fare abbondante uso di aneddoti e immagini, in ogni caso mai dare per terminata la propria formazione di predicatore, spesso in realtà già carente – è il vero nodo della questione – fin dagli anni del seminario.
E se proprio le performance non migliorano, a dispetto di tanti sforzi, che almeno si abbia cura di esser brevi, ammonisce non tanto il libretto in questione, quanto l’antica, pragmatica saggezza del popolo cristiano. Inutile nascondersi che questo, non altri, è il nocciolo di tanti lamenti e critiche al celebrante di turno. E tuttavia, curiosamente, solo pochi cenni il Direttorio riserva alla cruciale questione: l’omelia deve sì “essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione”, è il parere di Francesco riportato nè più meno al paragrafo 6. “E’difficile dar precetti, ci vuol sempre buon senso” per padre Maggioni, oltre magari ad un po’ di pazienza in più: perché nonostante tutto, parola del guineano cardinal Sarah, presidente della Congregazione che firma il libro, “in Occidente superare i venti minuti sembra troppo, in Africa... non basta!”.
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