giovedì, febbraio 19, 2015
Intervista con Ilan Baruch, ex ambasciatore israeliano in Sud Africa ed ex membro del team di negoziatori di Oslo. Il diplomatico ha inviato una lettera al Parlamento italiano.

NenaNews - aggiornamento ore 10.00 – Il decreto Milleproproghe fa slittare il voto alla Camera. Il Pd, che ha annunciato il sì, cerca di trovare una mediazione al suo interno e con altri partiti di maggioranza. Intanto ieri è arrivato l’alt di Israele: passo “Prematuro”, che “allontana la pace”. Ilan Baruch, ex ambasciatore israeliano in Sud Africa ed ex membro del team di negoziatori di Oslo, ha inviato una lettera ai parlamentari italiani e chiede a Tel Aviv di riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

di Chiara Cruciati – il Manifesto

Oggi il parlamento italiano dovrebbe esprimersi (il voto è stato rinviato, n.d.r.) su quanto altri paesi europei (i parlamenti di Gran Bretagna, Francia, Spagna e Irlanda e i governi di Svezia e Romania) hanno approvato lo scorso anno: il riconoscimento dello Stato di Palestina. Tra un mare di mozioni: tre (Sinistra e Libertà, Movimento 5 Stelle e Partito Socialista) chiedono un riconoscimento unilaterale, ovvero ribadire quanto già affermato dall’Italia il 29 novembre 2012 all’Assemblea Generale Onu. In quell’occasione Roma fu tra coloro che dissero sì all’adesione della Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite.

E poi c’è la mozione del Nuovo Centro Destra che subordina (come fatto dall’Unione Europea a dicembre) il riconoscimento al negoziato con Israele. Infine il Partito Democratico, uccel di bosco, che in extremis ieri ha annunciato una propria mozione i cui dettagli saranno resi noti direttamente alla Camera. Difficile prevedere cosa accadrà: è probabile che il decreto Milleproroghe provochi uno slittamento del voto. Tra i firmatari delle mozioni cosiddette unilaterali serpeggia il timore di un fallimento.

Eppure, insistono, l’Italia ha già riconosciuto al Palazzo di Vetro la Palestina. Ed infatti la mozione non si limita a subordinare la nascita dello Stato palestinese al processo negoziale: «La Camera impegna il governo a riconoscere lo Stato di Palestina quale azione di politica estera che imprima una svolta positiva al necessario negoziato tra le parti per giungere alla soluzione ‘due popoli due Stati’».

Chi appariva ieri più ottimista era Ilan Baruch, ex ambasciatore israeliano in Sud Africa ed ex membro del team di negoziatori di Oslo, dimessosi nel 2011 quando il falco Lieberman si aggiudicò la poltrona di ministro degli Esteri. Baruch ha inviato una lettera ai parlamentari italiani, forte del noto appello dei mille intellettuali israeliani – guidati dagli scrittori Grossman, Oz e Yehoshua – che domanda a Israele di riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Lo abbiamo incontrato ieri, a margine della conferenza stampa di Sel e Partito Socialista.

Lei è stato negoziatore durante Oslo. Oggi come valuta quel dialogo? Il ventennale processo negoziale è vuoto, parla di pace ma non guarda alla giustizia. E l’espansione coloniale continua.

Già all’epoca molti di noi erano dubbiosi: a negoziare erano una parte estremamente forte e una estremamente debole. Da allora un’intera generazione di israeliani e palestinesi è stata educata all’idea che lo Stato di Palestina possa essere creato solo su basi negoziali. E il mio governo perpetra una strategia molto pericolosa: l’obiettivo è l’annessione definitiva di gran parte della Cisgiordania e la creazione di un’entità palestinese a sovranità limitata come nei bantustan in Sud Africa su ciò che resterà. Ovvio che mai la leadership israeliana riconoscerà lo Stato di Palestina, la spinta deve venire da fuori, per portare Israele a negoziare con i vertici politi palestinesi che hanno scelto il sentiero del diritto internazionale e della legalità.

A tal proposito, lei ha ribadito la necessità di aprire alla leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese, la stessa leadership che lei ha incontrato ad Oslo, ma che il governo israeliano ha tentato più volte di screditare.

Quello che io faccio qui oggi non lo faccio per i palestinesi, lo faccio per Israele. Riconoscere lo Stato di Palestina significa tornare al negoziato, fondamentale per evitare che i palestinesi, in preda alla disperazione, vedano come unica alternativa possibile le armi e il terrorismo. Per questo va sostenuta una leadership, quella palestinese, che chiede l’applicazione del diritto internazionale, ovvero uno Stato nei confini del 1967. I Territori Palestinesi non sono contesi, sono occupati; tutto quello che sta oltre la Linea Verde è occupazione.

Pensa che un voto come quello italiano, simbolico, possa avere un effetto sul conflitto, senza reali pressioni economiche e politiche su Israele?

I passi simbolici permettono una trasformazione della percezione che l’Europa ha del Medio Oriente. Noi abbiamo oggi come obiettivo la riposizione in merito al conflitto dell’Europa e dell’Italia, per il suo ruolo nel Mediterraneo. In tal senso questo riconoscimento è una condizione sine qua non. Io non sono qui in nome dei palestinesi, ma in nome degli israeliani, troppo sensibili alle manipolazioni del governo, ma che meritano di vivere in pace. E questo non accadrà finché il rapporto tra Israele e Palestina sarà dettato dall’occupazione: il bilateralismo ha fallito, si dia spazio alla comunità internazionale per trasformare l’occupazione in buon vicinato. Si deve lavorare per cambiare la prospettiva israeliana, che vede in ogni critica o pressione dell’Europa un attacco contro Israele.

Pochi giorni fa alcuni media hanno riportato di un negoziato segreto nel 2011 tra l’allora presidente israeliano Peres e quello palestinese Abbas. Si sarebbe giunti, dicono, ad un passo dall’accordo di pace. Chi lo fece fallire?

Non conosco i dettagli di quel negoziato, ma so che fu Netanyahu a farlo fallire. Quando il segretario Kerry tentò di far ripartire il dialogo nel 2013, di nuovo Netanyahu fece ostruzionismo come forma di pressione sulla Casa Bianca in merito al nucleare iraniano.


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