Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, lo scorso anno le esecuzioni nel Paese sono state 175. Sono 102 solo nel primo semestre del 2015. Metodi illegali e mancanza dei più semplici diritti umani sono alla base del primato della monarchia wahhabita.
Nena News - Centosettantacinque esecuzioni lo scorso anno, ovvero una ogni due giorni. Sono le cifre-shock diffuse dall’ultimo rapporto di Amnesty International sulle condanne a morte effettuate in Arabia Saudita, il terzo paese al mondo per numero esecuzioni lo scorso anno dopo Iran e Cina. Secondo il documento, dal titolo “Uccidere nel nome della giustizia: la pena di morte in Arabia Saudita”, le condanne sono state eseguite perlopiù in luoghi pubblici, come strade e piazze: il metodo usato nella stragrande maggioranza dei casi è la decapitazione, ma ad alcuni “fortunati” è stato concesso di morire tramite fucilazione. A finire sotto la lama del boia anche minori e disabili mentali.
Amnesty, che ha tracciato il numero delle persone uccise dalle autorità saudite basandosi sui racconti dei condannati, quelli dei legali delle vittime e delle loro famiglie, ha rivelato che solo nei primi sei mesi del 2015 le esecuzioni sono state 102, cifra che rischia di battere il “primato” del 1995, quando ben 192 persone passarono sotto la lama del boia. Secondo l’organizzazione internazionale, il numero delle esecuzioni avrebbe subito un’impennata a partire dall’agosto 2014, per aumentare ancora di più dopo la nomina di re Salman nel gennaio scorso.
Secondo il rapporto, circa la metà dei condannati sono cittadini stranieri. Le loro confessioni, secondo i dati messi insieme dalla Ong, vengono raccolte perlopiù con la tortura: a ciò si aggiungono le discriminazioni subite e la mancanza di adeguate traduzioni durante il processo, quando si ha la fortuna di averne uno. Il sistema giuridico saudita non dispone di un vero e proprio codice penale: la definizione dei delitti e delle rispettive pene è, secondo la relazione di Amnesty, “ampiamente suscettibile di interpretazione”. La pena di morte viene data per una serie di crimini non considerata “gravi” dalle norme internazionali, convenzioni di cui Riyadh stessa è firmatatia. Essi comprendono reati di droga, adulterio, apostasia, eresia e stregoneria.
Secondo le testimonianze la maggior parte dei condannati non ha accesso neanche a un avvocato. Ai giudici, inoltre, è anche dato il potere di emettere le sentenze a propria discrezione, cosa che “porta a grandi discrepanze e, in alcuni casi, a sentenze arbitrarie”. Il rapporto sostiene anche che le condanne a morte sono spesso imposte dopo “procedimenti iniqui e sommari che a volte sono tenuti in segreto”. Tutto fuorché segrete appaiono invece le esecuzioni vere e proprie, effettuate spesso in luoghi pubblici. In alcuni casi, sostiene Amnesty, i resti dei giustiziati vengono esposti in pubblico come deterrente per gli altri: nei casi di banditismo, ad esempio, ciò ha comportato che il cadavere decapitato venisse legato insieme alla testa della vittima in una borsa nel mezzo di una piazza pubblica.
Nemmeno i minori vengono risparmiati. Il 27 maggio scorso un tribunale di Jeddah ha giudicato colpevole e condannato a morte un giovane di nome Ali Mohammed Baqir al-Nimr, di 17 anni, accusato di aver preso parte alle proteste contro il governo, attaccando le forze di sicurezza ed effettuando una rapina a mano armata. Tra le esecuzioni se ne contano alcune di persone con disabilità mentali: Siti Zainab Binti Duhri Rupa, collaboratrice domestica indonesiana accusata di aver ucciso il suo datore di lavoro, è stata decapitata nel 1999. A nulla sono valsi i report delle forze di sicurezza che giudicavano la donna affetta da una grave forma di disabilità mentale: non le è stata concessa alcuna rappresentanza legale nel corso della sua detenzione e durante il processo.
“La condanna a morte – ha dichiarato Said Boumedouha, direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty – di centinaia di persone dopo un procedimento giudiziario profondamente sbagliato è assolutamente vergognoso. L’uso della pena di morte è micidiale in tutte le circostanze, ed è particolarmente deplorevole quando viene arbitrariamente applicata al termine di processi palesemente iniqui”. La monarchia saudita, come in altre occasioni, non ha commentato le accuse rivoltele da Amnesty. Il quotidiano britannico the Independent ha ricordato come, in una rara intervista concessa al portale Arab News, l’uomo considerato il leader dei boia del Regno si sia dichiarato “molto orgoglioso di fare il lavoro di Dio”.
Nena News - Centosettantacinque esecuzioni lo scorso anno, ovvero una ogni due giorni. Sono le cifre-shock diffuse dall’ultimo rapporto di Amnesty International sulle condanne a morte effettuate in Arabia Saudita, il terzo paese al mondo per numero esecuzioni lo scorso anno dopo Iran e Cina. Secondo il documento, dal titolo “Uccidere nel nome della giustizia: la pena di morte in Arabia Saudita”, le condanne sono state eseguite perlopiù in luoghi pubblici, come strade e piazze: il metodo usato nella stragrande maggioranza dei casi è la decapitazione, ma ad alcuni “fortunati” è stato concesso di morire tramite fucilazione. A finire sotto la lama del boia anche minori e disabili mentali.
Amnesty, che ha tracciato il numero delle persone uccise dalle autorità saudite basandosi sui racconti dei condannati, quelli dei legali delle vittime e delle loro famiglie, ha rivelato che solo nei primi sei mesi del 2015 le esecuzioni sono state 102, cifra che rischia di battere il “primato” del 1995, quando ben 192 persone passarono sotto la lama del boia. Secondo l’organizzazione internazionale, il numero delle esecuzioni avrebbe subito un’impennata a partire dall’agosto 2014, per aumentare ancora di più dopo la nomina di re Salman nel gennaio scorso.
Secondo il rapporto, circa la metà dei condannati sono cittadini stranieri. Le loro confessioni, secondo i dati messi insieme dalla Ong, vengono raccolte perlopiù con la tortura: a ciò si aggiungono le discriminazioni subite e la mancanza di adeguate traduzioni durante il processo, quando si ha la fortuna di averne uno. Il sistema giuridico saudita non dispone di un vero e proprio codice penale: la definizione dei delitti e delle rispettive pene è, secondo la relazione di Amnesty, “ampiamente suscettibile di interpretazione”. La pena di morte viene data per una serie di crimini non considerata “gravi” dalle norme internazionali, convenzioni di cui Riyadh stessa è firmatatia. Essi comprendono reati di droga, adulterio, apostasia, eresia e stregoneria.
Secondo le testimonianze la maggior parte dei condannati non ha accesso neanche a un avvocato. Ai giudici, inoltre, è anche dato il potere di emettere le sentenze a propria discrezione, cosa che “porta a grandi discrepanze e, in alcuni casi, a sentenze arbitrarie”. Il rapporto sostiene anche che le condanne a morte sono spesso imposte dopo “procedimenti iniqui e sommari che a volte sono tenuti in segreto”. Tutto fuorché segrete appaiono invece le esecuzioni vere e proprie, effettuate spesso in luoghi pubblici. In alcuni casi, sostiene Amnesty, i resti dei giustiziati vengono esposti in pubblico come deterrente per gli altri: nei casi di banditismo, ad esempio, ciò ha comportato che il cadavere decapitato venisse legato insieme alla testa della vittima in una borsa nel mezzo di una piazza pubblica.
Nemmeno i minori vengono risparmiati. Il 27 maggio scorso un tribunale di Jeddah ha giudicato colpevole e condannato a morte un giovane di nome Ali Mohammed Baqir al-Nimr, di 17 anni, accusato di aver preso parte alle proteste contro il governo, attaccando le forze di sicurezza ed effettuando una rapina a mano armata. Tra le esecuzioni se ne contano alcune di persone con disabilità mentali: Siti Zainab Binti Duhri Rupa, collaboratrice domestica indonesiana accusata di aver ucciso il suo datore di lavoro, è stata decapitata nel 1999. A nulla sono valsi i report delle forze di sicurezza che giudicavano la donna affetta da una grave forma di disabilità mentale: non le è stata concessa alcuna rappresentanza legale nel corso della sua detenzione e durante il processo.
“La condanna a morte – ha dichiarato Said Boumedouha, direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty – di centinaia di persone dopo un procedimento giudiziario profondamente sbagliato è assolutamente vergognoso. L’uso della pena di morte è micidiale in tutte le circostanze, ed è particolarmente deplorevole quando viene arbitrariamente applicata al termine di processi palesemente iniqui”. La monarchia saudita, come in altre occasioni, non ha commentato le accuse rivoltele da Amnesty. Il quotidiano britannico the Independent ha ricordato come, in una rara intervista concessa al portale Arab News, l’uomo considerato il leader dei boia del Regno si sia dichiarato “molto orgoglioso di fare il lavoro di Dio”.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.