Che il potere pubblico utilizzato per acquisire ricchezze, magari da reinvestire fino alla creazione di un sistema criminale in grado di autoalimentarsi ed espandersi progressivamente, possa lasciare una città in rovina a Siena l’avevano già capito parecchi secoli fa e l’avevano rappresentato ai governanti stampandoglielo proprio laddove avrebbero preso le decisioni, ad ammonimento degli effetti del governo corrotto.
di Lorenzo Carchini
Sinistraineuropa - Intorno al politico mefistofelico, la città è un cumulo di macerie, degradata, la giustizia è spoglia e accasciata ai piedi del tiranno, i campi sono incolti, le greggi smunte e scheletrite, nessuno che s’impegni in attività produttive, giacché il governo corrotto espropria senza giudizio i cittadini, privando li di ogni incentivo a produrre. Il governo corrotto, dunque, produce la rovina della comunità ed era necessario che i governanti dell’epoca avessero davanti a loro questo monito, l’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo del Lorenzetti.
Quello che Lorenzetti voleva mostrare, disegnando la città corrotta come un cumulo di macerie, è corroborato oggi dal rigore della ricerca scientifica ed economica. I livelli di mortalità rispetto allo sviluppo economico dei paesi, in termini di ricchezza e di corruzione, sono tutti fattori integrati nelle principali indagini quantitative ed econometriche. Eppure, già nel XIV secolo la società del Lorenzetti poteva ipotizzare scenari simili in un dipinto dal contenuto fortemente laico, in cui si raggiungeva la rappresentazione del governante corrotto che abusa del bene pubblico per fini privati – ottenendo la più ampia definizione di corruzione oggi adottabile. Una cornice laica – l’abuso di potere delegato per fini privati – nella quale il governante corrotto, scaricando i costi sulla comunità che gli aveva affidato il potere (concetto non del tutto estraneo alla realtà comunale) finiva per tradire il mandato fiduciario, meritandosi una rappresentazione in chiave demoniaca.
Sarebbe stato effettivamente comodo, come immaginava Lombroso, raggiungere una fisiognomica del deviante corrotto, non dissimile da quello del Lorenzetti, per poterlo riconoscere. Eppure, il corrotto anche qualora assumesse una simile connotazione estetica, non farebbe fatica a ricorrere alla frode (allegoricamente rappresentata nell’affresco con mani e pieni aguzzi), indossando una maschera. Si rederebbe dunque necessario, qualunque sia il tipo d’impegno (tra ricerca, informazione, controllo e repressione criminale), riconoscere il principale sintomo di questa trasformazione: un deterioramento della qualità dei servizi, con allungamenti nei tempi e nei costi.
Un’ultima considerazione sull’Allegoria del Lorenzetti: Siena come epicentro della crisi bancaria italiana.
La vicenda del “Babbo Monte”, la banca più antica (1472) ancora operante al mondo, dimostra che l’attenzione nei confronti dell’Allegoria del Buon Governo da parte degli amministratori locali è andata declinando fino ad essere stata completamente persa di vista. La vicenda è esemplare di come qualcosa in passato fattore di ricchezza e prestigio per tutta la comunità sia stato rovesciato nel suo opposto, nella forma di un drammatico buco di bilancio. La perdita di ricchezza del “mezzo-crac” (il Monte era di fatto fallito, ma in rispetto del principio anglosassone “too big to fail” era necessario salvarla) e la corruzione, in senso ampio, dei poteri legati agli amministratori della banca e dei controllori ha costituito un buco nell’ordine dei circa 120 miliardi di euro. Una finanziaria, di fatto.
Un’enorme falla prodotta dagli amministratori del Monte, che nell’ambiente finanziario erano conosciuti come “banda del 5%”: la tangente che sistematicamente chiedevano per ogni trattativa che chiudevano in nome e per conto della loro banca. Selezionati con un procedimento rigorosamente “demeritocratico”, erano figure di scarsissima competenza, neppure a conoscenza dell’inglese, che dovevano dialogare – senza interpreti – con banche internazionali, dove acquistavano i Nomura, prodotti marci, senza che loro ne capissero nulla o poco più. Le grottesche testimonianze dei venditori mettono in dubbio perfino che avessero mai letteralmente inteso quello che sarebbero andati ad acquistare. Dopotutto quale poteva essere per loro un buon affare se non quello che li avrebbe permesso di applicare la daziale del 5% alla cifra più alta?
Nel “groviglio armonioso senese” (Bisi, Gran Maestro della loggia massonica senese) nel quale Monte, comune, università e chiesa si saldavano e le nomine venivano effettuate in concorso con componenti politiche ed interessi locali, l’incompetenza e la controllabilità diventavano valori importanti. Il risultato era una cerchia di corruzione sistemica proseguita finché le risorse del “Babbo Monte” potevano essere depredate, attraverso un circuito di redistribuzione clientelare in cui tutte le iniziative locali venivano finanziate (anche a fondo perso) e tutti avevano una propria quota.
Infine, nel recente caso di Banca Etruria, si sono registrate molte analogie con quello senese. Nella concessione dei mutui (ove l’inchiesta sta procedendo molto a rilento nel tradurre le testimonianze in atti utilizzabili in sede processuale) la prassi abituale era la restituzione in nero di una tangente del 10% al commercialista mediatore ed amico di alcuni dei dirigenti della banca. Tecnicamente non è detto sia una forma di corruzione privata (e questo andrebbe provato con certezza), ma è evidente che la logica è la medesima: prendere risorse che dovrebbero arricchire gli azionisti della banca in primis, nonché quella comunità che nella banca del territorio deposita i soldi, ed utilizzarle come strumento di arricchimento personale (il 10%). Tangenti, di fatto, che divenivano la base su cui si selezionavano i destinatari finali del mutuo. Non più su un criterio di affidabilità del destinatario finale, ma su un criterio di “affidabilità” nell’entrare in questo circuito di scambi comuni (come corruttori dunque). Il risultato era un tasso assolutamente anomalo d’esposizione da parte dell’istituto, giacché che le somme venivano prestate sulla base della propensione alla disponibilità verso la corruzione. Anche nella banca aretina si è riproposto il serio problema d’incompetenza gestionale per una banca ormai in rosso, finita sotto la lente degli organi di controllo e della Banca d’Italia, ma con un’amministrazione che continuava a concedersi addirittura i bonus per il conseguimento degli obiettivi; come dei comandanti Schettino dirigendo la nave verso gli scogli.
Le indagini, lentamente, si trascineranno in avanti, magari concludendosi con la prescrizione (troppo breve per reati così gravi) e quantomeno scopriremo l’effettiva incidenza del famoso “giglio magico” nel frattempo trasferitosi dall’entroterra toscano a Roma, anche perché in questi casi, come in quello del Monte, il legame fra finanza e politica si è già dimostrato molto forte.
di Lorenzo Carchini
Sinistraineuropa - Intorno al politico mefistofelico, la città è un cumulo di macerie, degradata, la giustizia è spoglia e accasciata ai piedi del tiranno, i campi sono incolti, le greggi smunte e scheletrite, nessuno che s’impegni in attività produttive, giacché il governo corrotto espropria senza giudizio i cittadini, privando li di ogni incentivo a produrre. Il governo corrotto, dunque, produce la rovina della comunità ed era necessario che i governanti dell’epoca avessero davanti a loro questo monito, l’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo del Lorenzetti.
Quello che Lorenzetti voleva mostrare, disegnando la città corrotta come un cumulo di macerie, è corroborato oggi dal rigore della ricerca scientifica ed economica. I livelli di mortalità rispetto allo sviluppo economico dei paesi, in termini di ricchezza e di corruzione, sono tutti fattori integrati nelle principali indagini quantitative ed econometriche. Eppure, già nel XIV secolo la società del Lorenzetti poteva ipotizzare scenari simili in un dipinto dal contenuto fortemente laico, in cui si raggiungeva la rappresentazione del governante corrotto che abusa del bene pubblico per fini privati – ottenendo la più ampia definizione di corruzione oggi adottabile. Una cornice laica – l’abuso di potere delegato per fini privati – nella quale il governante corrotto, scaricando i costi sulla comunità che gli aveva affidato il potere (concetto non del tutto estraneo alla realtà comunale) finiva per tradire il mandato fiduciario, meritandosi una rappresentazione in chiave demoniaca.
Sarebbe stato effettivamente comodo, come immaginava Lombroso, raggiungere una fisiognomica del deviante corrotto, non dissimile da quello del Lorenzetti, per poterlo riconoscere. Eppure, il corrotto anche qualora assumesse una simile connotazione estetica, non farebbe fatica a ricorrere alla frode (allegoricamente rappresentata nell’affresco con mani e pieni aguzzi), indossando una maschera. Si rederebbe dunque necessario, qualunque sia il tipo d’impegno (tra ricerca, informazione, controllo e repressione criminale), riconoscere il principale sintomo di questa trasformazione: un deterioramento della qualità dei servizi, con allungamenti nei tempi e nei costi.
Un’ultima considerazione sull’Allegoria del Lorenzetti: Siena come epicentro della crisi bancaria italiana.
La vicenda del “Babbo Monte”, la banca più antica (1472) ancora operante al mondo, dimostra che l’attenzione nei confronti dell’Allegoria del Buon Governo da parte degli amministratori locali è andata declinando fino ad essere stata completamente persa di vista. La vicenda è esemplare di come qualcosa in passato fattore di ricchezza e prestigio per tutta la comunità sia stato rovesciato nel suo opposto, nella forma di un drammatico buco di bilancio. La perdita di ricchezza del “mezzo-crac” (il Monte era di fatto fallito, ma in rispetto del principio anglosassone “too big to fail” era necessario salvarla) e la corruzione, in senso ampio, dei poteri legati agli amministratori della banca e dei controllori ha costituito un buco nell’ordine dei circa 120 miliardi di euro. Una finanziaria, di fatto.
Un’enorme falla prodotta dagli amministratori del Monte, che nell’ambiente finanziario erano conosciuti come “banda del 5%”: la tangente che sistematicamente chiedevano per ogni trattativa che chiudevano in nome e per conto della loro banca. Selezionati con un procedimento rigorosamente “demeritocratico”, erano figure di scarsissima competenza, neppure a conoscenza dell’inglese, che dovevano dialogare – senza interpreti – con banche internazionali, dove acquistavano i Nomura, prodotti marci, senza che loro ne capissero nulla o poco più. Le grottesche testimonianze dei venditori mettono in dubbio perfino che avessero mai letteralmente inteso quello che sarebbero andati ad acquistare. Dopotutto quale poteva essere per loro un buon affare se non quello che li avrebbe permesso di applicare la daziale del 5% alla cifra più alta?
Nel “groviglio armonioso senese” (Bisi, Gran Maestro della loggia massonica senese) nel quale Monte, comune, università e chiesa si saldavano e le nomine venivano effettuate in concorso con componenti politiche ed interessi locali, l’incompetenza e la controllabilità diventavano valori importanti. Il risultato era una cerchia di corruzione sistemica proseguita finché le risorse del “Babbo Monte” potevano essere depredate, attraverso un circuito di redistribuzione clientelare in cui tutte le iniziative locali venivano finanziate (anche a fondo perso) e tutti avevano una propria quota.
Infine, nel recente caso di Banca Etruria, si sono registrate molte analogie con quello senese. Nella concessione dei mutui (ove l’inchiesta sta procedendo molto a rilento nel tradurre le testimonianze in atti utilizzabili in sede processuale) la prassi abituale era la restituzione in nero di una tangente del 10% al commercialista mediatore ed amico di alcuni dei dirigenti della banca. Tecnicamente non è detto sia una forma di corruzione privata (e questo andrebbe provato con certezza), ma è evidente che la logica è la medesima: prendere risorse che dovrebbero arricchire gli azionisti della banca in primis, nonché quella comunità che nella banca del territorio deposita i soldi, ed utilizzarle come strumento di arricchimento personale (il 10%). Tangenti, di fatto, che divenivano la base su cui si selezionavano i destinatari finali del mutuo. Non più su un criterio di affidabilità del destinatario finale, ma su un criterio di “affidabilità” nell’entrare in questo circuito di scambi comuni (come corruttori dunque). Il risultato era un tasso assolutamente anomalo d’esposizione da parte dell’istituto, giacché che le somme venivano prestate sulla base della propensione alla disponibilità verso la corruzione. Anche nella banca aretina si è riproposto il serio problema d’incompetenza gestionale per una banca ormai in rosso, finita sotto la lente degli organi di controllo e della Banca d’Italia, ma con un’amministrazione che continuava a concedersi addirittura i bonus per il conseguimento degli obiettivi; come dei comandanti Schettino dirigendo la nave verso gli scogli.
Le indagini, lentamente, si trascineranno in avanti, magari concludendosi con la prescrizione (troppo breve per reati così gravi) e quantomeno scopriremo l’effettiva incidenza del famoso “giglio magico” nel frattempo trasferitosi dall’entroterra toscano a Roma, anche perché in questi casi, come in quello del Monte, il legame fra finanza e politica si è già dimostrato molto forte.
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