Inflazione a tutti i costi? Alla fine dovranno intervenire i governi. Le banche centrali avranno fallito e l'inflazione rimarrà comunque un obiettivo da raggiungere.
WSI - Controlli sui prezzi. Forse è questa l’arma finale, il vero bazooka, ancora inutilizzato, che rimane nell’arsenale delle banche centrali. O meglio, nell’arsenale di chi governa il mondo. Né l’introduzione di una nuova era di tassi negativi né l’espansione delle misure di Quantitative easing sono riuscite e stanno riuscendo – indicativi gli esempi del Giappone e dell’Eurozona – a centrare l’obiettivo numero uno di alcuni istituti, come in questo caso, rispettivamente la Bank of Japan e la Bce di Mario Draghi.
Il target è inflazione, che non solo non decolla ma si è trasformata anche in deflazione in diversi casi. Tanto che ora il perseguimento dell’inflazione è diventato una vera ossessione per le banche centrali. D’altronde, ne va della loro reputazione nell’Olimpo dell’alta finanza. Draghi non vorrà essere certo ricordato per non essere riuscito – nonostante tutte le sue manovre ultraespansive di politica monetaria – a rimettere in moto la dinamica dei prezzi. Ecco così insinuarsi tra gli esperti del settore l’idea del controllo dei prezzi. Ad affrontare il tema ci ha pensato il Wall Street Journal, in un articolo in cui ha preso in considerazione, in modo particolare, la trappola della liquidità che dilania l’economia del Giappone. Soprattutto, il quotidiano finanziario ha citato l’articolo firmato da Olivier Blanchard, ex responsabile economista del Fondo Monetario Internazionale, e Adam Posen, direttore generale del Peterson Institute for International Economics. I due hanno suggerito al Giappone alcune iniziative che hanno sollevato non pochi dubbi.
“E’ arrivato il momento per il Giappone, di fare sul serio riguardo all’aumento dei salari. Un piano di una maggiore spinta a far salire i salari dovrebbe essere adottata dal governo giapponese”.
Tra le misure proposte:
- Ritardare il taglio delle tasse corporate che è stato promesso, fino a quando le aziende non alzeranno i salari.
- Aumentare i compensi nel settore pubblico: in questo modo anche le aziende private sarebbero costrette a fare lo stesso, per non perdere i propri dipendenti.
- Aumentare il salario minimo e i salari stabiliti nei contratti governativi e nei settori regolamentati di almeno il 5%.
- Infine, indicizzare i salari all’inflazione in quei settori in cui il governo ha la giurisdizione.
Inflazione a tutti i costi, dunque? I due economisti vanno avanti e suggeriscono perfino l’introduzione di sanzioni fiscali per le società che non “si attengano” alle disposizioni, e dunque non assicurino “un aumento dei salari di almeno il 2% più la crescita della produttività”. Secondo la coppia Blanchard-Posen, se si riuscisse a fare in modo che i salari crescano a un ritmo più veloce rispetto ai prezzi, le spese al consumo dovrebbero finalmente salire. Allo stesso tempo, tuttavia, le aziende potrebbero non essere d’accordo, in quanto, al fine di tutelare i margini sui profitti, sarebbero ovviamente tentate dall’aumentare i prezzi. In ogni caso, i due economisti fanno notare chei redditi e i prezzi più alti farebbero salire il valore del PIL su base nominale (ovvero, senza gli aggiustamenti che tengono in considerazione l’incidenza dell’inflazione). L’effetto sarebbe il calo del rapporto debito/Pil, che al momento si aggira a quasi il 250%. Un effetto collaterale potrebbe però essere la fine del libero mercato.
Un articolo del Mises Institute che porta la firma di Paul Martin Foss fa notare che i controlli sui prezzi porterebbero inevitabilmente al socialismo, in quanto, come spiegò l’economista austriaco Ludwig von Mises decenni fa: “Al primo decreto che fisserebbe solo il prezzo del latte, bisognerebbe aggiungere un altro decreto che fisserebbe i prezzi dei fattori di produzione necessari per la produzione del latte, a un tasso talmente basso per evitare ulteriori perdite da parte dei produttori marginali di latte e dunque per impedire la riduzione dell’offerta. Ma la stessa storia si ripeterebbe. L’offerta dei fattori di produzione richiesti per la produzione del latte potrebbe calare, e a quel punto il governo sarebbe al punto di partenza. Per non ammettere la sconfitta, il governo dovrebbe dunque spingersi oltre e stabilire i prezzi di quei fattori di produzione che sono necessari per la produzione dei fattori a loro volta necessari per la produzione del latte. E alla fine il governo sarebbe costretto ad andare sempre più oltre, fissando passo dopo passo i prezzi di tutti i beni al consumo e di tutti i fattori di produzione, sia umani (per esempio il lavoro), che materiali. E ordinerebbe a ogni imprenditore e lavoratore di continuare a lavorare a questi prezzi e a questi salari”.
Insomma, alla fine ci sarebbe una vera e propria dittatura sui prezzi e sui salari. I principi del libero mercato morirebbero. Ma secondo l’autore dell’articolo “nessuno dovrebbe sorprendersi, se i governi di Giappone, Europa e Stati Uniti decidessero di ricorrere ai controlli sui prezzi per centrare quegli obiettivi che le banche centrali non riescono a conseguire”.
WSI - Controlli sui prezzi. Forse è questa l’arma finale, il vero bazooka, ancora inutilizzato, che rimane nell’arsenale delle banche centrali. O meglio, nell’arsenale di chi governa il mondo. Né l’introduzione di una nuova era di tassi negativi né l’espansione delle misure di Quantitative easing sono riuscite e stanno riuscendo – indicativi gli esempi del Giappone e dell’Eurozona – a centrare l’obiettivo numero uno di alcuni istituti, come in questo caso, rispettivamente la Bank of Japan e la Bce di Mario Draghi.
Il target è inflazione, che non solo non decolla ma si è trasformata anche in deflazione in diversi casi. Tanto che ora il perseguimento dell’inflazione è diventato una vera ossessione per le banche centrali. D’altronde, ne va della loro reputazione nell’Olimpo dell’alta finanza. Draghi non vorrà essere certo ricordato per non essere riuscito – nonostante tutte le sue manovre ultraespansive di politica monetaria – a rimettere in moto la dinamica dei prezzi. Ecco così insinuarsi tra gli esperti del settore l’idea del controllo dei prezzi. Ad affrontare il tema ci ha pensato il Wall Street Journal, in un articolo in cui ha preso in considerazione, in modo particolare, la trappola della liquidità che dilania l’economia del Giappone. Soprattutto, il quotidiano finanziario ha citato l’articolo firmato da Olivier Blanchard, ex responsabile economista del Fondo Monetario Internazionale, e Adam Posen, direttore generale del Peterson Institute for International Economics. I due hanno suggerito al Giappone alcune iniziative che hanno sollevato non pochi dubbi.
“E’ arrivato il momento per il Giappone, di fare sul serio riguardo all’aumento dei salari. Un piano di una maggiore spinta a far salire i salari dovrebbe essere adottata dal governo giapponese”.
Tra le misure proposte:
- Ritardare il taglio delle tasse corporate che è stato promesso, fino a quando le aziende non alzeranno i salari.
- Aumentare i compensi nel settore pubblico: in questo modo anche le aziende private sarebbero costrette a fare lo stesso, per non perdere i propri dipendenti.
- Aumentare il salario minimo e i salari stabiliti nei contratti governativi e nei settori regolamentati di almeno il 5%.
- Infine, indicizzare i salari all’inflazione in quei settori in cui il governo ha la giurisdizione.
Inflazione a tutti i costi, dunque? I due economisti vanno avanti e suggeriscono perfino l’introduzione di sanzioni fiscali per le società che non “si attengano” alle disposizioni, e dunque non assicurino “un aumento dei salari di almeno il 2% più la crescita della produttività”. Secondo la coppia Blanchard-Posen, se si riuscisse a fare in modo che i salari crescano a un ritmo più veloce rispetto ai prezzi, le spese al consumo dovrebbero finalmente salire. Allo stesso tempo, tuttavia, le aziende potrebbero non essere d’accordo, in quanto, al fine di tutelare i margini sui profitti, sarebbero ovviamente tentate dall’aumentare i prezzi. In ogni caso, i due economisti fanno notare chei redditi e i prezzi più alti farebbero salire il valore del PIL su base nominale (ovvero, senza gli aggiustamenti che tengono in considerazione l’incidenza dell’inflazione). L’effetto sarebbe il calo del rapporto debito/Pil, che al momento si aggira a quasi il 250%. Un effetto collaterale potrebbe però essere la fine del libero mercato.
Un articolo del Mises Institute che porta la firma di Paul Martin Foss fa notare che i controlli sui prezzi porterebbero inevitabilmente al socialismo, in quanto, come spiegò l’economista austriaco Ludwig von Mises decenni fa: “Al primo decreto che fisserebbe solo il prezzo del latte, bisognerebbe aggiungere un altro decreto che fisserebbe i prezzi dei fattori di produzione necessari per la produzione del latte, a un tasso talmente basso per evitare ulteriori perdite da parte dei produttori marginali di latte e dunque per impedire la riduzione dell’offerta. Ma la stessa storia si ripeterebbe. L’offerta dei fattori di produzione richiesti per la produzione del latte potrebbe calare, e a quel punto il governo sarebbe al punto di partenza. Per non ammettere la sconfitta, il governo dovrebbe dunque spingersi oltre e stabilire i prezzi di quei fattori di produzione che sono necessari per la produzione dei fattori a loro volta necessari per la produzione del latte. E alla fine il governo sarebbe costretto ad andare sempre più oltre, fissando passo dopo passo i prezzi di tutti i beni al consumo e di tutti i fattori di produzione, sia umani (per esempio il lavoro), che materiali. E ordinerebbe a ogni imprenditore e lavoratore di continuare a lavorare a questi prezzi e a questi salari”.
Insomma, alla fine ci sarebbe una vera e propria dittatura sui prezzi e sui salari. I principi del libero mercato morirebbero. Ma secondo l’autore dell’articolo “nessuno dovrebbe sorprendersi, se i governi di Giappone, Europa e Stati Uniti decidessero di ricorrere ai controlli sui prezzi per centrare quegli obiettivi che le banche centrali non riescono a conseguire”.
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