Diversi rapporti evidenziano un aumento preoccupante del traffico d’armi nella regione. Usa e Arabia Saudita detengono rispettivamente il primato delle esportazioni e delle importazioni. La corsa agli armamenti rende sempre più chiara la polarizzazione in atto.
di Giovanni Pagani
Nena News - Negli ultimi cinque anni, il mercato bellico in Medio Oriente ha registrato un’espansione del 61%; e l’Arabia Saudita, assieme alla coalizione sempre più marcatamente sunnita da lei incoraggiata, ne è stata protagonista indiscussa. Secondo un report pubblicato questo mese dall’International Peace Institute di Stoccolma, Riyadh è infatti la seconda importatrice mondiale di armi dopo l’India e primo acquirente di Washington e Londra, per le quali accoglie rispettivamente il 9.7% e il 46% delle esportazioni nel settore militare.
Dal 2011, le importazioni del regno hanno dunque registrato un aumento del 275% rispetto ai cinque anni precedenti, mentre uno studio prodotto da ATTmonitor rivela che solo negli ultimi 12 mesi Riyadh ha acquistato forniture militari per 25 miliardi di dollari, da Canada, Francia, Germania, Olanda, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti. Tali armamenti sono confluiti sia in Siria, a sostegno delle milizie islamiste anti-Assad, sia in Yemen, dove vengono indiscriminatamenteutilizzati dal marzo 2015.
Da questa prospettiva, la proposta di embargo votata dal parlamento europeo in settimana, con lo scopo di interrompere le forniture di armamenti verso Riyadh per la sua cattiva condotta in Yemen, non ha potuto non sollevare lo scetticismo di molti osservatori; tanto per il tempismo con cui tale mozione ha visto la luce, quanto per la sua dubbia effettività. Formalizzato il 25 febbraio scorso con 359 voti favorevoli e 212 contrari, il provvedimento non avrà infatti natura vincolante per i singoli paesi membri dell’Unione e nonostante Richard Howitt – eurodeputato laburista formulatore della proposta – l’abbia definito “un chiaro appello umanitario che spera di fermare lo spargimento di sangue in Yemen”, è legittimo credere che esso non inciderà sugli sviluppi del conflitto.
I bombardamenti contro i ribelli Houthi in Yemen proseguono ininterrottamente dal marzo 2015, quando una coalizione formata da nove paesi arabi e guidata da Riyadh – con la tacita benedizione della comunità internazionale -, è intervenuta militarmente nel paese in difesa del presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi. In un anno, il conflitto ha provocato almeno 7.000 vittime, 35.000 feriti e 2 milioni di sfollati; oltre che danni irreparabili a uno dei patrimoni storico-architettonici tra i più antichi nel mondo islamico. In questo contesto, almeno tre degli otto paesi alleati di Riyadh in Yemen hanno aumentato esponenzialmente le proprie importazioni di materiale bellico, sia dal 2011 sia nell’ultimo anno.
Gli Emirati Arabi Uniti – che si riforniscono soprattutto da Washington, Parigi e Roma, e importano grandi quantitativi di armi già dal 2001 – hanno incrementatola spesa bellica del 35%, ma sono i secondi importatori regionali dopo l’Arabia Saudita. Anche il Cairo, che già beneficiava d’ingenti finanziamenti statunitensi sotto Mubarak, ha registrato un incremento più ridotto negli ultimi cinque anni (37%), ma nel 2015 ha importato armamenti per un valore di 1.47 miliardi di dollari. Uno scarto notevole rispetto ai 368 milioni dell’anno precedente. Infine il Qatar, già molto attivo nel finanziare la ribellione siriana dai suoi inizi, ha aumentato la propria spesa bellica del 279% in cinque anni; proporzionalmente di poco superiore all’Arabia Saudita.
I dati registrati dall’International Peace Institute di Stoccolma – che esegue rilevazioni quinquennali sul mercato delle armi – prendono in esame il periodo compreso tra il 2011 e i 2015, aperto dall’instabilità seguita alle rivoluzioni arabe e chiuso dalla riabilitazione internazionale della Repubblica Islamica Iraniana a seguito degli accordi raggiunti sul nucleare. In questi cinque anni, il collasso di entità statali in Libia, Siria, Iraq e Yemen, unito al progressivo indietreggiamento statunitense, ha aperto nuovi spazi per le ambizioni regionali di Arabia Saudita e Iran; favorendo l’inasprirsi di uno scontro per procura che assume tinte sempre più nitidamente settarie. Dalla Siria all’Iraq, e dal Libano allo Yemen.
Tale polarizzazione dello scontro è dunque riflessa da una ‘corsa agli armamenti’ iniziata nel post-2011; e mai stata così serrata nella storia della regione dai primi anni ’80. In altre parole, nonostante Riyadh abbia sempre sottolineato il carattere pan-arabo della coalizione da lei guidata, non è un caso che questa raggruppi 8 paesi arabo-sunniti – Marocco, Egitto, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Giordania – ai quali, in cambio di aiuti economici, si sono aggiunte truppe di terra da tre paesi africani della stessa confessione: Senegal, Mauritania e Somalia.
Ed è altrettanto significativo che quando Re Salman chiese al Pakistan di contribuire con un contingente militare nell’aprile 2015 – richiesta poi rifiutata da Islamabad – mise come condizione che quest’ultima inviasse in Yemen soltanto soldati sunniti. Al contrario, se il sostegno iraniano alle milizie Houthi – appartenenti a una setta minoritaria dello sciismo – non è stato mai apertamente riconosciuto da Tehran, vari carichi d’armi provenienti dalla Repubblica Islamica e diretti in Yemen sono stati intercettati in questi mesi; l’ultimo pochi giorni fa da forze statunitensi. Mentre non è un caso che il leader spirituale Houthi, Abdel-Malek Al-Shami, rimasto ferito agli inizi del conflitto nell’aprile 2015, sia morto in ospedalea Tehran e sepolto a Beirut; nel Giardino dei due Martiri, assieme agli alti vertici di Hezbollah.
A tal proposito, l’annuncio fatto da Riyadh la scorsa settimana, in base al quale l’Arabia Saudita potrebbe smettere di finanziare la fornitura di armi francesi all’esercito libanese (3 miliardi di dollari) se Hezbollah non ritirerà il proprio appoggio alle milizie Houthi in Yemen e il regime di Bashar al-Assad in Siria, non fa che corroborare tale scenario.
In questo quadro, nonostante il voto al parlamento europeo e le minacce saudite al Libano facciano luce sul conflitto yemenita, la partita principale si combatte proprio in Siria. Dove, transitando per la Turchia, è arrivata gran parte degli armamenti venduti da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia ai paesi del Golfo tra il 2011 e il 2014. Dove la presenza di armi e soldati iraniani al fianco di Hezbollah e di altre milizie sciite irachene è ormai candidamente dichiarata da Tehran. E dove, quasi in spregio del precario cessate il fuoco contrattato da Washington e Mosca nei giorni scorsi, Riyadh sembra sempre più intenzionata a intervenire al fianco della Turchia. Turchia che – per chiudere il cerchio -, sebbene sembri meno influenzata delle logiche settarie proposte dalla sua alleata, dimostra sempre maggiore irrequietezza e ambizioni interventiste; oltre ad essere il secondo esercito NATO per numero di uomini e terzo importatore di armi nella regione. Nena News
La versione in inglese di questo articolo è disponibile qui
di Giovanni Pagani
Nena News - Negli ultimi cinque anni, il mercato bellico in Medio Oriente ha registrato un’espansione del 61%; e l’Arabia Saudita, assieme alla coalizione sempre più marcatamente sunnita da lei incoraggiata, ne è stata protagonista indiscussa. Secondo un report pubblicato questo mese dall’International Peace Institute di Stoccolma, Riyadh è infatti la seconda importatrice mondiale di armi dopo l’India e primo acquirente di Washington e Londra, per le quali accoglie rispettivamente il 9.7% e il 46% delle esportazioni nel settore militare.
Dal 2011, le importazioni del regno hanno dunque registrato un aumento del 275% rispetto ai cinque anni precedenti, mentre uno studio prodotto da ATTmonitor rivela che solo negli ultimi 12 mesi Riyadh ha acquistato forniture militari per 25 miliardi di dollari, da Canada, Francia, Germania, Olanda, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti. Tali armamenti sono confluiti sia in Siria, a sostegno delle milizie islamiste anti-Assad, sia in Yemen, dove vengono indiscriminatamenteutilizzati dal marzo 2015.
Da questa prospettiva, la proposta di embargo votata dal parlamento europeo in settimana, con lo scopo di interrompere le forniture di armamenti verso Riyadh per la sua cattiva condotta in Yemen, non ha potuto non sollevare lo scetticismo di molti osservatori; tanto per il tempismo con cui tale mozione ha visto la luce, quanto per la sua dubbia effettività. Formalizzato il 25 febbraio scorso con 359 voti favorevoli e 212 contrari, il provvedimento non avrà infatti natura vincolante per i singoli paesi membri dell’Unione e nonostante Richard Howitt – eurodeputato laburista formulatore della proposta – l’abbia definito “un chiaro appello umanitario che spera di fermare lo spargimento di sangue in Yemen”, è legittimo credere che esso non inciderà sugli sviluppi del conflitto.
I bombardamenti contro i ribelli Houthi in Yemen proseguono ininterrottamente dal marzo 2015, quando una coalizione formata da nove paesi arabi e guidata da Riyadh – con la tacita benedizione della comunità internazionale -, è intervenuta militarmente nel paese in difesa del presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi. In un anno, il conflitto ha provocato almeno 7.000 vittime, 35.000 feriti e 2 milioni di sfollati; oltre che danni irreparabili a uno dei patrimoni storico-architettonici tra i più antichi nel mondo islamico. In questo contesto, almeno tre degli otto paesi alleati di Riyadh in Yemen hanno aumentato esponenzialmente le proprie importazioni di materiale bellico, sia dal 2011 sia nell’ultimo anno.
Gli Emirati Arabi Uniti – che si riforniscono soprattutto da Washington, Parigi e Roma, e importano grandi quantitativi di armi già dal 2001 – hanno incrementatola spesa bellica del 35%, ma sono i secondi importatori regionali dopo l’Arabia Saudita. Anche il Cairo, che già beneficiava d’ingenti finanziamenti statunitensi sotto Mubarak, ha registrato un incremento più ridotto negli ultimi cinque anni (37%), ma nel 2015 ha importato armamenti per un valore di 1.47 miliardi di dollari. Uno scarto notevole rispetto ai 368 milioni dell’anno precedente. Infine il Qatar, già molto attivo nel finanziare la ribellione siriana dai suoi inizi, ha aumentato la propria spesa bellica del 279% in cinque anni; proporzionalmente di poco superiore all’Arabia Saudita.
I dati registrati dall’International Peace Institute di Stoccolma – che esegue rilevazioni quinquennali sul mercato delle armi – prendono in esame il periodo compreso tra il 2011 e i 2015, aperto dall’instabilità seguita alle rivoluzioni arabe e chiuso dalla riabilitazione internazionale della Repubblica Islamica Iraniana a seguito degli accordi raggiunti sul nucleare. In questi cinque anni, il collasso di entità statali in Libia, Siria, Iraq e Yemen, unito al progressivo indietreggiamento statunitense, ha aperto nuovi spazi per le ambizioni regionali di Arabia Saudita e Iran; favorendo l’inasprirsi di uno scontro per procura che assume tinte sempre più nitidamente settarie. Dalla Siria all’Iraq, e dal Libano allo Yemen.
Tale polarizzazione dello scontro è dunque riflessa da una ‘corsa agli armamenti’ iniziata nel post-2011; e mai stata così serrata nella storia della regione dai primi anni ’80. In altre parole, nonostante Riyadh abbia sempre sottolineato il carattere pan-arabo della coalizione da lei guidata, non è un caso che questa raggruppi 8 paesi arabo-sunniti – Marocco, Egitto, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Giordania – ai quali, in cambio di aiuti economici, si sono aggiunte truppe di terra da tre paesi africani della stessa confessione: Senegal, Mauritania e Somalia.
Ed è altrettanto significativo che quando Re Salman chiese al Pakistan di contribuire con un contingente militare nell’aprile 2015 – richiesta poi rifiutata da Islamabad – mise come condizione che quest’ultima inviasse in Yemen soltanto soldati sunniti. Al contrario, se il sostegno iraniano alle milizie Houthi – appartenenti a una setta minoritaria dello sciismo – non è stato mai apertamente riconosciuto da Tehran, vari carichi d’armi provenienti dalla Repubblica Islamica e diretti in Yemen sono stati intercettati in questi mesi; l’ultimo pochi giorni fa da forze statunitensi. Mentre non è un caso che il leader spirituale Houthi, Abdel-Malek Al-Shami, rimasto ferito agli inizi del conflitto nell’aprile 2015, sia morto in ospedalea Tehran e sepolto a Beirut; nel Giardino dei due Martiri, assieme agli alti vertici di Hezbollah.
A tal proposito, l’annuncio fatto da Riyadh la scorsa settimana, in base al quale l’Arabia Saudita potrebbe smettere di finanziare la fornitura di armi francesi all’esercito libanese (3 miliardi di dollari) se Hezbollah non ritirerà il proprio appoggio alle milizie Houthi in Yemen e il regime di Bashar al-Assad in Siria, non fa che corroborare tale scenario.
In questo quadro, nonostante il voto al parlamento europeo e le minacce saudite al Libano facciano luce sul conflitto yemenita, la partita principale si combatte proprio in Siria. Dove, transitando per la Turchia, è arrivata gran parte degli armamenti venduti da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia ai paesi del Golfo tra il 2011 e il 2014. Dove la presenza di armi e soldati iraniani al fianco di Hezbollah e di altre milizie sciite irachene è ormai candidamente dichiarata da Tehran. E dove, quasi in spregio del precario cessate il fuoco contrattato da Washington e Mosca nei giorni scorsi, Riyadh sembra sempre più intenzionata a intervenire al fianco della Turchia. Turchia che – per chiudere il cerchio -, sebbene sembri meno influenzata delle logiche settarie proposte dalla sua alleata, dimostra sempre maggiore irrequietezza e ambizioni interventiste; oltre ad essere il secondo esercito NATO per numero di uomini e terzo importatore di armi nella regione. Nena News
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