La velocità con cui la politica europea è riuscita a scivolare nel baratro dell’ostilità verso i rifugiati dovrebbe portarci a sperare in un intervento della cultura popolare, magari alla ricerca di un rinnovato senso del dovere e della compassione verso le vittime della violenza. Fortunatamente, un simile lavoro già esiste ed è ancor oggi considerato uno dei più grandi capolavori del cinema.
di Lorenzo Carchini
Sinistraineuropa - Casablanca (“un’antologia di film” lo definì Umberto Eco) potrebbe sembrare inadatto ad un simile ruolo. Il racconto di un amore irrequieto al pianobar in mezzo a fiumi di champagne potrebbe, di primo acchito, risultare inapplicabile ad un disastro umanitario. Nonostante il classico glamour hollywoodiano, si parla però di una pellicola che si pone nel bel mezzo della crisi dei rifugiati, insistendo sulla loro profonda umanità ed individualità, piuttosto che trattarli come una massa informe dalla quale non si possa tratteggiare alcun contorno. Come testimoniava già nel 2014 l’Agenzia Rifugiati ONU, il numero di rifugiati e sfollati nel mondo, per la prima volta proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha superato i 50 milioni di persone; rivisitare un film-icona dell’ultima grande era di migrazioni, risulta più che mai attuale.
Uscito nel 1942, Casablanca era il prodotto di un tempo nel quale, al contrario di oggi, erano gli europei ad attraversare il Mediterraneo per trovare rifugio nelle terre nordafricane, come raccontava il narratore in apertura: “da Parigi a Marsiglia, attraverso il Mediterraneo fino a Orano, dopodiché, via treno o auto o a piedi, attraverso le coste dell’Africa fino a Casablanca”. Migliaia di europei cercarono di raggiungere il Marocco francese durante la guerra, come i cinegiornali dell’epoca mostravano.
Il film accenna solo vagamente alla terribile realtà coloniale, fatta di abusi e privazioni. Ci sono alcuni riferimenti ai campi di concentramento coloniali – in un tempo in cui il termine non aveva acquistato il significato odierno, dal momento che gli orrori della Shoah non erano ancora stati disvelati. Il regime di Vichy, in particolare, aveva costruito campi simili in Marocco dove i rifugiati ebrei ed i prigionieri politici venivano obbligati a costruire ferrovie ed altre opere pubbliche in condizioni disumane. La questione religiosa viene del tutto sorvolata, sebbene molti dei tiratardi del Rick’s Café Américan potessero essere stati ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.
Eppure, nonostante un prodotto ampiamente censurato, atto ad un consumo pubblico, la pellicola drammatizza e acuisce le frustrazioni di gente bloccata in un limbo quasi ovattato, dal quale si riesce a sapere poco e se ne capisce ancor di meno. Anche nella crisi odierna non mancano i luoghi dove la vita umana valga meno di zero, come sosteneva nel film il maggiore nazista Heinrich Strasser, ed in essi oggi non si può godere né della compagnia del simpatico pianista Sam, né della speranza di una nazione redenta.
“Aspettare, aspettare, aspettare, non me ne andrò mai via da qui. Morirò a Casablanca”, si lamenta uno degli abitué del Rick’s ad inizio film. “Forse domani saremo su un aereo”, si augura la rifugiata bulgara Annina Brandel, che aveva lasciato il proprio paese perché non intendeva crescere i propri figli in un paese dove “il diavolo tiene il popolo per la gola”. Alcuni di quei fuggitivi sono attivisti politici, come il marito di Ilsa (Ingrid Bergman) Victor Laszlo, ma i più sono personaggi ordinari che vivono delle vite spezzate da una storia che va ben oltre il loro controllo (“i problemi di tre piccole persone come noi non contano, in questa immensa tragedia”). La narrazione d’apertura ci informa che ottenere il diritto d’asilo era spesso questione di “soldi, d’influenza, o di fortuna”, ma anche i più benestanti dovevano superare ostacoli che non avrebbero potuto immaginare. Una donna cerca di barattare i propri gioielli solo per sentirsi dire che il mercato è attualmente a ribasso, dal momento che tutti stanno vendendo. L’ex capo della “seconda più grande banca di Amsterdam”, racconta il cameriere Carl, “ora fa il pasticcere nelle nostre cucine”.
Nella crisi immigrati odierna, il possesso di documenti falsi, ad esempio, viene spesso considerata una prova di colpevolezza ed un’immediata minaccia alla sicurezza nazionale, ma già Casablanca cercava di mostrare come il mercato nero costituisse molte volte l’ultima risorsa per persone altrimenti oneste che versavano in condizioni disperate. Tanto fra i locali marocchini, quanto tra le roulotte e le capanne di fortuna a Calais o Lesbo, persone che vedono chiudersi davanti a loro le porte della libertà diventano facili prede per criminali e trafficanti, come lo strisciante Ugarte o il viscido Signor Ferrari – che definiva i rifugiati, “la principale materia prima di Casablanca”. Una situazione ancor peggiore per le donne, uno dei temi rimasti più oscuri sulla pellicola. Fu solo grazie alla magistrale interpretazione di Claude Rains, se il prefetto di polizia Louis Renault ne uscì ritratto come un’affascinante canaglia; in realtà si tratta di un corrotto predatore che estorce favori sessuali dalle “dolci giovani ragazze” come Annina in cambio di visti d’uscita. Dopo le molte notizie circolate sui media di sfruttamento sessuale di donne siriane nei campi profughi, il furfantesco romanticismo di Louis sembra oggi molto meno affascinante.
La demonizzazione dei rifugiati era componente comune nella società al tempo di Casablanca non meno di quanto lo sia adesso, ma il film propone un richiamo significativo e sinistro rispetto alla “feccia d’Europa” in viaggio verso Casablanca. Nell’immagine dell’uomo intento al borseggio non solo vediamo uno dei crimini più antichi, ma anche la proiezione più prossima alla nostra percezione dello straniero. Ancor più importante, l’opera dipinge le vittime della guerra come individui cordiali, degni della compassione dello spettatore. Molti critici hanno sostenuto la tesi che questo fosse dovuto in particolare alla natura di fuggitivi di molti degli attori stessi. Paul Henreid (Laszlo), Peter Lorre (Ugarte) ed il grande Conrad Veidt (Strasser) erano dovuti fuggire dall’Europa dopo l’ascesa al potere di Hitler, così come molte altre comparse.
Casablanca insiste sull’individualità di questi personaggi per i quali il Rick’s assomiglia all’ultima oasi di civiltà nel bel mezzo di una natura disumanizzante e sorvolata dagli avvoltoi– “ma io sono anche un essere umano” rimprovera Laszlo a Rick. “I problemi di tre piccole persone come noi non contano, in questa immensa tragedia”, ma chiunque di noi avrebbe potuto trovarsi nei suoi panni.
La pellicola fu un prodotto largamente esportato, ma pur sempre americano ed annacquato in quanto immediatamente successivo all’attacco di Pearl Harbor, tanto da rimanere un racconto morale sull’isolazionismo americano; ma a guardarlo oggi suggerisce che anche quando possa sembrare qualcosa di lontano o affatto conveniente, l’Occidente intero ed in particolare l’Europa non possono ignorare il proprio obbligo morale verso coloro che hanno bisogno. Una regola che si applica ancora, “mentre il tempo passa”.
di Lorenzo Carchini
Sinistraineuropa - Casablanca (“un’antologia di film” lo definì Umberto Eco) potrebbe sembrare inadatto ad un simile ruolo. Il racconto di un amore irrequieto al pianobar in mezzo a fiumi di champagne potrebbe, di primo acchito, risultare inapplicabile ad un disastro umanitario. Nonostante il classico glamour hollywoodiano, si parla però di una pellicola che si pone nel bel mezzo della crisi dei rifugiati, insistendo sulla loro profonda umanità ed individualità, piuttosto che trattarli come una massa informe dalla quale non si possa tratteggiare alcun contorno. Come testimoniava già nel 2014 l’Agenzia Rifugiati ONU, il numero di rifugiati e sfollati nel mondo, per la prima volta proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha superato i 50 milioni di persone; rivisitare un film-icona dell’ultima grande era di migrazioni, risulta più che mai attuale.
Uscito nel 1942, Casablanca era il prodotto di un tempo nel quale, al contrario di oggi, erano gli europei ad attraversare il Mediterraneo per trovare rifugio nelle terre nordafricane, come raccontava il narratore in apertura: “da Parigi a Marsiglia, attraverso il Mediterraneo fino a Orano, dopodiché, via treno o auto o a piedi, attraverso le coste dell’Africa fino a Casablanca”. Migliaia di europei cercarono di raggiungere il Marocco francese durante la guerra, come i cinegiornali dell’epoca mostravano.
Il film accenna solo vagamente alla terribile realtà coloniale, fatta di abusi e privazioni. Ci sono alcuni riferimenti ai campi di concentramento coloniali – in un tempo in cui il termine non aveva acquistato il significato odierno, dal momento che gli orrori della Shoah non erano ancora stati disvelati. Il regime di Vichy, in particolare, aveva costruito campi simili in Marocco dove i rifugiati ebrei ed i prigionieri politici venivano obbligati a costruire ferrovie ed altre opere pubbliche in condizioni disumane. La questione religiosa viene del tutto sorvolata, sebbene molti dei tiratardi del Rick’s Café Américan potessero essere stati ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.
Eppure, nonostante un prodotto ampiamente censurato, atto ad un consumo pubblico, la pellicola drammatizza e acuisce le frustrazioni di gente bloccata in un limbo quasi ovattato, dal quale si riesce a sapere poco e se ne capisce ancor di meno. Anche nella crisi odierna non mancano i luoghi dove la vita umana valga meno di zero, come sosteneva nel film il maggiore nazista Heinrich Strasser, ed in essi oggi non si può godere né della compagnia del simpatico pianista Sam, né della speranza di una nazione redenta.
“Aspettare, aspettare, aspettare, non me ne andrò mai via da qui. Morirò a Casablanca”, si lamenta uno degli abitué del Rick’s ad inizio film. “Forse domani saremo su un aereo”, si augura la rifugiata bulgara Annina Brandel, che aveva lasciato il proprio paese perché non intendeva crescere i propri figli in un paese dove “il diavolo tiene il popolo per la gola”. Alcuni di quei fuggitivi sono attivisti politici, come il marito di Ilsa (Ingrid Bergman) Victor Laszlo, ma i più sono personaggi ordinari che vivono delle vite spezzate da una storia che va ben oltre il loro controllo (“i problemi di tre piccole persone come noi non contano, in questa immensa tragedia”). La narrazione d’apertura ci informa che ottenere il diritto d’asilo era spesso questione di “soldi, d’influenza, o di fortuna”, ma anche i più benestanti dovevano superare ostacoli che non avrebbero potuto immaginare. Una donna cerca di barattare i propri gioielli solo per sentirsi dire che il mercato è attualmente a ribasso, dal momento che tutti stanno vendendo. L’ex capo della “seconda più grande banca di Amsterdam”, racconta il cameriere Carl, “ora fa il pasticcere nelle nostre cucine”.
Nella crisi immigrati odierna, il possesso di documenti falsi, ad esempio, viene spesso considerata una prova di colpevolezza ed un’immediata minaccia alla sicurezza nazionale, ma già Casablanca cercava di mostrare come il mercato nero costituisse molte volte l’ultima risorsa per persone altrimenti oneste che versavano in condizioni disperate. Tanto fra i locali marocchini, quanto tra le roulotte e le capanne di fortuna a Calais o Lesbo, persone che vedono chiudersi davanti a loro le porte della libertà diventano facili prede per criminali e trafficanti, come lo strisciante Ugarte o il viscido Signor Ferrari – che definiva i rifugiati, “la principale materia prima di Casablanca”. Una situazione ancor peggiore per le donne, uno dei temi rimasti più oscuri sulla pellicola. Fu solo grazie alla magistrale interpretazione di Claude Rains, se il prefetto di polizia Louis Renault ne uscì ritratto come un’affascinante canaglia; in realtà si tratta di un corrotto predatore che estorce favori sessuali dalle “dolci giovani ragazze” come Annina in cambio di visti d’uscita. Dopo le molte notizie circolate sui media di sfruttamento sessuale di donne siriane nei campi profughi, il furfantesco romanticismo di Louis sembra oggi molto meno affascinante.
La demonizzazione dei rifugiati era componente comune nella società al tempo di Casablanca non meno di quanto lo sia adesso, ma il film propone un richiamo significativo e sinistro rispetto alla “feccia d’Europa” in viaggio verso Casablanca. Nell’immagine dell’uomo intento al borseggio non solo vediamo uno dei crimini più antichi, ma anche la proiezione più prossima alla nostra percezione dello straniero. Ancor più importante, l’opera dipinge le vittime della guerra come individui cordiali, degni della compassione dello spettatore. Molti critici hanno sostenuto la tesi che questo fosse dovuto in particolare alla natura di fuggitivi di molti degli attori stessi. Paul Henreid (Laszlo), Peter Lorre (Ugarte) ed il grande Conrad Veidt (Strasser) erano dovuti fuggire dall’Europa dopo l’ascesa al potere di Hitler, così come molte altre comparse.
La pellicola fu un prodotto largamente esportato, ma pur sempre americano ed annacquato in quanto immediatamente successivo all’attacco di Pearl Harbor, tanto da rimanere un racconto morale sull’isolazionismo americano; ma a guardarlo oggi suggerisce che anche quando possa sembrare qualcosa di lontano o affatto conveniente, l’Occidente intero ed in particolare l’Europa non possono ignorare il proprio obbligo morale verso coloro che hanno bisogno. Una regola che si applica ancora, “mentre il tempo passa”.
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