L'amnesia tipica della malattia sarebbe legata non alla formazione dei ricordi, ma solo al loro recupero.
di Paolo Antonio Magrì
Si aggiunge un ulteriore importante tassello nello studio del morbo di Alzheimer. Fino ad oggi si pensava che la perdita della memoria - il tratto distintivo più terribile dell'invalidante malattia - fosse dovuta al deterioramento dei neuroni in alcune specifiche aree del cervello che comprometteva la capacità di formare i ricordi. Secondo uno studio di un gruppo di ricercatori del MIT di Boston quella ad essere danneggiata dal morbo sarebbe, invece, la capacità di recuperare i ricordi che, quindi, continuerebbero a formarsi normalmente.
Una differenza sottile, ma cruciale perché lascia aperta la possibilità di pensare al recupero dei ricordi mediante la stimolazione mirata di alcune aree cerebrali. È proprio quello che ha fatto il team guidato da Susumu Tonegawa, che ha messo a punto un sofisticato esperimento sui topi.
L’ESPERIMENTO
Di solito per testare la memoria delle cavie, si fa loro associare un certo stimolo a una reazione: ad esempio un suono viene abbinato ad una leggera scossa elettrica. Quando verrà ripetuto il suono, se l’animale si immobilizzerà in attesa della scossa, allora si avrà la prova che l'associazione è stata fissata e che, quindi, il suo cervello ha registrato la traccia mnestica corrispondente. Nei topi geneticamente modificati che sviluppano una forma precoce di Alzheimer, però, questo non avviene. Lo studio – pubblicato su Nature – ha dimostrato come sia possibile riattivare i ricordi apparentemente persi. Tonegawa e il suo gruppo hanno utilizzato alcune innovative tecniche di optogenetica “taggando” i neuroni dell’ippocampo - le cellule fisicamente coinvolte nel processo di codifica dei ricordi - con un gene sensibile alla luce (veicolato da un virus) . Dopo aver sottoposto gli animali al condizionamento, hanno attivato il gene con la luce blu. Questa volta i topi, reinseriti nella gabbia dove avevano ricevuto la scossa, hanno ricordato l’associazione suono/scossa immobilizzandosi un attimo dopo aver sentito il suono.
ASPETTATIVE
Purtroppo la ricerca non prevede un’applicazione immediata, ma senza dubbio costituisce un prezioso passo in avanti nella comprensione a un livello sempre più dettagliato di quali sono i meccanismi neuronali che la malattia manda in tilt.
I rewind di LPLNews24
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Leggi gli articoli di scienza e tecnologia di
Paolo Antonio Magrì sul blog fritturadiparanza
di Paolo Antonio Magrì
Si aggiunge un ulteriore importante tassello nello studio del morbo di Alzheimer. Fino ad oggi si pensava che la perdita della memoria - il tratto distintivo più terribile dell'invalidante malattia - fosse dovuta al deterioramento dei neuroni in alcune specifiche aree del cervello che comprometteva la capacità di formare i ricordi. Secondo uno studio di un gruppo di ricercatori del MIT di Boston quella ad essere danneggiata dal morbo sarebbe, invece, la capacità di recuperare i ricordi che, quindi, continuerebbero a formarsi normalmente.
Una differenza sottile, ma cruciale perché lascia aperta la possibilità di pensare al recupero dei ricordi mediante la stimolazione mirata di alcune aree cerebrali. È proprio quello che ha fatto il team guidato da Susumu Tonegawa, che ha messo a punto un sofisticato esperimento sui topi.
L’ESPERIMENTO
Di solito per testare la memoria delle cavie, si fa loro associare un certo stimolo a una reazione: ad esempio un suono viene abbinato ad una leggera scossa elettrica. Quando verrà ripetuto il suono, se l’animale si immobilizzerà in attesa della scossa, allora si avrà la prova che l'associazione è stata fissata e che, quindi, il suo cervello ha registrato la traccia mnestica corrispondente. Nei topi geneticamente modificati che sviluppano una forma precoce di Alzheimer, però, questo non avviene. Lo studio – pubblicato su Nature – ha dimostrato come sia possibile riattivare i ricordi apparentemente persi. Tonegawa e il suo gruppo hanno utilizzato alcune innovative tecniche di optogenetica “taggando” i neuroni dell’ippocampo - le cellule fisicamente coinvolte nel processo di codifica dei ricordi - con un gene sensibile alla luce (veicolato da un virus) . Dopo aver sottoposto gli animali al condizionamento, hanno attivato il gene con la luce blu. Questa volta i topi, reinseriti nella gabbia dove avevano ricevuto la scossa, hanno ricordato l’associazione suono/scossa immobilizzandosi un attimo dopo aver sentito il suono.
ASPETTATIVE
Purtroppo la ricerca non prevede un’applicazione immediata, ma senza dubbio costituisce un prezioso passo in avanti nella comprensione a un livello sempre più dettagliato di quali sono i meccanismi neuronali che la malattia manda in tilt.
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