sabato, luglio 23, 2016
Negli Stati Uniti, Donald Trump ha accettato formalmente l’investitura dei repubblicani per la corsa alla Casa Bianca. Lo ha fatto durante un lungo intervento pronunciato davanti alla platea di Cleveland, dove è tornato a criticare con forza la candidata del Partito democratico, Hillary Clinton. Il servizio di Eugenio Bonanata: ascolta

Radio Vaticana -È durato più di un’ora il discorso di Trump. Il più lungo della storia recente, fanno notare gli analisti. I temi e sono quelli attesi: aumenta la violenza per le strade, dilaga la crisi economica e cresce l’insicurezza in tutto il Paese. Impietoso – secondo Trump – il bilancio dell’amministrazione Obama e in particolare dell’azione della Clinton sul fronte della politica estera. Un riferimento alla vicenda delle email che coinvolge la candidata del Partito democratico e poi l’affondo sulla questione dell’immigrazione. Occorre sospendere i flussi da tutti quei Paesi compromessi con il terrorismo e ristabilire efficaci meccanismi di controllo.

Il disegno di Trump è chiaro: “Costruiremo un grande muro di frontiera per fermare l’immigrazione illegale”, dice, incitando i partecipanti alla convention di Cleveland. In tempo reale la replica della Clinton: “Non sei la nostra voce, siamo meglio di così”, scrive su Twitter.

Sull’ufficializzazione della candidatura di Trump, e sul suo discorso pronunciato davanti alla Convention di Cleveland, Eugenio Bonanata ha intervistato Dario Fabbri, analista della rivista di geopolitica “Limes”: ascolta

R. – È il discorso che, in assoluto, ci ha consegnato il “pensiero Trump”: un pensiero a tutto tondo, dall’economia alla strategia internazionale, passando per l’immigrazione e la sicurezza. Ovviamente, è stato il culmine di una settimana, a partire da lunedì, giorno in cui è iniziata la Convention repubblicana, in cui, di fatto, si è realizzato un climax. Gli oratori che hanno preceduto Trump hanno dipinto un quadro tetro degli Stati Uniti da ogni punto di vista, fino ad arrivare poi a questa notte e al discorso del “nominee” ormai ufficiale del partito che si è presentato come il “cavaliere senza macchia e senza paura” – l’unico, quasi un "messia" – che dovrà rilanciare gli Stati Uniti e salvarli dal loro assoluto abisso. In un certo senso, scientificamente, questo tipo di operazione sembra aver funzionato, almeno per quanto riguarda la base repubblicana. C’è da dire che però il discorso è rimasto molto vago su tantissimi punti. Intendiamoci, nulla di nuovo: normalmente i discorsi alle Convention sono tutti molto vaghi, anche se pare che le ricette di Trump siano veramente forse troppo poco circostanziate, almeno per ora.

D. – Come valutare la posizione dei repubblicani in tema di politica estera, in prospettiva? 

R. – I repubblicani sono un conto, Trump è un altro. Perché lui è di fatto un alieno rispetto alla tradizione dei repubblicani, almeno quella degli ultimi anni. In realtà, l’isolazionismo che Trump propugna è comunque parte della tradizione statunitense e della destra americana in un certo qual senso. Tuttavia, ormai da diversi decenni, non ve ne era traccia nel partito repubblicano: basti pensare a George W. Bush, che era un signore interventista, molto legato agli affari internazionali. Trump, invece, è un potenziale presidente che vorrebbe restare fuori dalle beghe internazionali e che ha una visione quasi esclusivamente economicistica della politica estera: gli Stati Uniti devono intervenire soltanto lì dove c’è la possibilità di trarne un beneficio economico o materiale. E questa è una dimensione di fatto non imperiale, perché un impero – la prima potenza del mondo – come sono gli Stati Uniti, interviene per mere ragioni strategiche e non soltanto per avere un ritorno economico, ma per mantenere la sua egemonia. Per tutte queste ragioni, l’approccio di Trump, che non è lontanissimo da quello di Obama, è comunque alieno alla tradizione repubblicana.

D. –Tra i temi di politica estera c’è anche la questione Nato, che è stringente…

R. – Sì, la questione Nato si inserisce nell’approccio economicistico di Trump. Lui dice essenzialmente che non è più automatico che gli Usa difendano una nazione che è parte della Nato se questa non avrà speso quanto richiesto in difesa, ossia se non avrà speso la quota di Pil in difesa, come previsto nelle intenzioni. Anche qui, è un approccio tutto sommato un po’ alieno quello di Trump, perché gli Stati Uniti comunque – come detto – dovranno muoversi anche per ragioni strategiche. Quindi, intervenire in funzione anti-russa, o comunque indirettamente intervenire – anche se forse non militarmente – in difesa di Paesi come quelli baltici, che sono al confine con la Russia. È però altrettanto vero che questa forma di semi-isolazionismo, di non interventismo, è presente nell’establishment tanto di sinistra quanto di destra degli Usa. Quindi, in un futuro dobbiamo aspettarci un’America maggiormente restia ad intervenire negli affari internazionali, anche in Europa in funzione anti-russa, ma che comunque non abbandonerà definitivamente al loro destino i Paesi baltici o qualsiasi altro che non abbia pagato la sua quota. Si troverà cioè un bilanciamento, che non sarà più l’interventismo di qualche tempo fa, ma non sarà nemmeno una ritrosia totale ad intervenire.

D. – Trump ha ribadito il progetto di un muro per proteggere gli Stati Uniti dall’immigrazione illegale; i conservatori ci credono davvero?

R. – I conservatori ci credono fino ad un certo punto. Il muro, in realtà, parzialmente esiste già, e lo hanno peraltro costruito – “costruito” si fa per dire, nel senso che ne hanno almeno avallato la costruzione – anche i presidenti di “sinistra”, come Bill Clinton. Comunque c’è già una buona porzione di muro tra gli Stati del Sud e il Messico. Il fatto che Trump riesca o meno ad ultimare la costruzione del muro – peraltro sarebbe un’opera monumentale – è meno rilevante del fatto – e intendo per base che lo ascolta – che Trump sia invece favorevole a una nettissima riduzione dell’immigrazione. Anche qui però dobbiamo essere molto chiari: gli Stati Uniti hanno bisogno di migranti, la loro economia ne ha bisogno, la loro società ne ha bisogno. Quindi, a mio avviso succederà che, al di là della retorica di Trump, gli Stati Uniti continueranno ad accogliere i migrati e non espelleranno le decine di milioni di clandestini – si parla di 11-12 milioni – che vivono nel Paese.


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