Sarà scarcerato il 12 dicembre alla fine del periodo di detenzione amministrativa. Resta in piedi la protesta di altri 4 prigionieri. Scelte individuali che in parte indeboliscono il movimento dei detenuti.
Nena News – Dopo 71 giorni di sciopero della fame, Bilal Kayed ha interrotto la sua protesta: il prigioniero politico palestinese ha trovato ieri un accordo con le autorità israeliane che lo avevano posto in detenzione amministrativa (misura cautelare che non prevede né accuse ufficiali né processo, in violazione del diritto internazionale) a giugno. Quel giorno doveva uscire di prigione dopo 14 anni e mezzo di carcere: era stato condannato nel 2002 perché presunto membro delle Brigate Abu Ali Mustafa, il braccio armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
Ieri l’accordo: secondo Sahar Francis, direttore dell’associazione per i prigionieri palestinesi Addameer, Israele ha accettato di non rinnovare l’ordine di detenzione amministrativa, senza specificare una data di rilascio. Ma fonti anonime palestinesi la indicano nel 12 dicembre, il giorno in cui finiranno i sei mesi iniziati a giugno.
La protesta di Kayed – che si trova in questo momento in gravi condizioni di salute – aveva sollevato altre proteste: centinaia di prigionieri palestinesi sono entrati in sciopero della fame in solidarietà con la battaglia di Bilal, mentre fuori la società civile organizzava tende di protesta e manifestazioni. L’ultima ieri: alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, un sit-in è stato aggreddito dalla polizia israeliana che ha poi arrestato tre persone.
Intanto altri prigionieri restano in sciopero della fame: Malik al-Qadi e Ayyad al-Hreimi, da 40 giorni; Muhammad al-Balbolu, da 49; e suo fratello Mahmoud da 52.
Non è la prima volta che simili proteste individuali vengono messe in atto nelle carceri israeliane: negli ultimi anni i casi più noti sono stati quelli di Khader Adnan e di Samer Issawi. Entrambi hanno rischiato di morire per la mancanza di cibo per poi trovare un accordo con le autorità israeliane. Non sempre, però, simili lotte vanno a buon fine: Adnan è stato riarrestato e poi liberato, mentre Issawi è tornato in prigione durante gli scontri che infiammarono Gerusalemme nel giugno 2014, prima dell’attacco contro Gaza. Da allora non è più uscito: a maggio 2015 una corte militare ha riattivato l’originale condanna a 30 anni.
Nonostante ci siano 7mila prigionieri politici in carcere, di cui 750 in detenzione amministrativa, il movimento dei detenuti politici da alcuni anni ha perso una delle sue caratteristiche: per decenni, fin dopo l’occupazione militare del 1967, i detenuti palestinesi divennero colonna portante del movimento di liberazione. Gli scioperi della fame collettivi hanno permesso miglioramenti delle condizioni di vita in carcere e stimolato proteste della società esterna.
Da alcuni anni, però, i detenuti preferiscono la via dello sciopero individuale per il proprio caso, e non contro la più generale applicazione di misure detentive o condizioni di vita in prigione. Scelte che, se da una parte accendono l’attenzione esterna, dall’altra indeboliscono il movimento in sè impedendogli di organizzare proteste comuni e più efficaci.
Ieri l’accordo: secondo Sahar Francis, direttore dell’associazione per i prigionieri palestinesi Addameer, Israele ha accettato di non rinnovare l’ordine di detenzione amministrativa, senza specificare una data di rilascio. Ma fonti anonime palestinesi la indicano nel 12 dicembre, il giorno in cui finiranno i sei mesi iniziati a giugno.
La protesta di Kayed – che si trova in questo momento in gravi condizioni di salute – aveva sollevato altre proteste: centinaia di prigionieri palestinesi sono entrati in sciopero della fame in solidarietà con la battaglia di Bilal, mentre fuori la società civile organizzava tende di protesta e manifestazioni. L’ultima ieri: alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, un sit-in è stato aggreddito dalla polizia israeliana che ha poi arrestato tre persone.
Intanto altri prigionieri restano in sciopero della fame: Malik al-Qadi e Ayyad al-Hreimi, da 40 giorni; Muhammad al-Balbolu, da 49; e suo fratello Mahmoud da 52.
Non è la prima volta che simili proteste individuali vengono messe in atto nelle carceri israeliane: negli ultimi anni i casi più noti sono stati quelli di Khader Adnan e di Samer Issawi. Entrambi hanno rischiato di morire per la mancanza di cibo per poi trovare un accordo con le autorità israeliane. Non sempre, però, simili lotte vanno a buon fine: Adnan è stato riarrestato e poi liberato, mentre Issawi è tornato in prigione durante gli scontri che infiammarono Gerusalemme nel giugno 2014, prima dell’attacco contro Gaza. Da allora non è più uscito: a maggio 2015 una corte militare ha riattivato l’originale condanna a 30 anni.
Da alcuni anni, però, i detenuti preferiscono la via dello sciopero individuale per il proprio caso, e non contro la più generale applicazione di misure detentive o condizioni di vita in prigione. Scelte che, se da una parte accendono l’attenzione esterna, dall’altra indeboliscono il movimento in sè impedendogli di organizzare proteste comuni e più efficaci.
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