A Rabia lo stadio era sempre pieno. Il club locale era l’orgoglio della cittadina, estremo confine orientale dell’Iraq, a due passi dalla Siria.
Nena News - Con la piaga dell’occupazione dello Stato Islamico di un terzo dei due paesi, i punti di riferimento geografici sono cambiati: Rabia è diventata il punto di passaggio obbligato tra Raqqa e Mosul, le due città-capitale del “califfato”, i simboli fisici delle ambizioni statuali del movimento jihadista di al-Baghdadi. Qui, dentro i confini dell’autoproclamato Stato Islamico, le imposizioni figlie di un’interpretazione volutamente distorta dell’Islam hanno colpito gli aspetti più tradizionali della vita quotidiana:
vietato ascoltare musica, immaginarsi suonarla; vietato fumare sigarette o l’amato narghilè; vietato navigare in internet.
E vietato, ovviamente, anche giocare a pallone. A Rabia il divieto è stato solo l’ultimo di tanti pugni in faccia. Lo stadio, luogo frequentato al pari di mercati all’aperto e moschee, è stato subito demolito dai voraci bulldozer islamisti. Il club locale è stato chiuso. Le divise sono state confiscate, gli islamisti si sono portati via anche le lampadine. Il buio della ragione: «Lo sport significa vita – racconta l’allenatore Abu Ahmed all’agenzia Middle East Eye – Quando Daesh ci ha detto che non avremmo più potuto giocare, ci siamo arrabbiati moltissimo. Alcuni di noi hanno pianto».
Una devastazione emotiva non indifferente per una comunità piccola, isolata, lungo la porosa e pericolosa frontiera tra Iraq e Siria, terra di contrabbando di armi e trasferimento di miliziani. La soluzione, però, è stata trovata quasi subito: giocare comunque. Giocare di nascosto, giocare in piccole squadre ufficiose, lontano dagli occhi dei censori, giocare nelle strade polverose e non sul campo dello stadio. Così tanto amato che la comunità aveva investito denaro per fornirlo di erba sintetica, senza successo: l’Isis, come Attila, si è portato via anche il prato. «Se lo saranno fumato», scherzano oggi i giovani di Rabia.
Una forma di resistenza “culturale” ai beceri diktat islamisti, di vita quotidiana. Ha coinvolto i bambini, gli adolescenti, che hanno rischiato grosso. Se non erano i miliziani dell’Isis a punirli o minacciarli di morte, le pietre a volte arrivavano dai vicini di casa. Non perché non amassero il pallone e le grida gioiose nei vicoli, ma perché tenevano di più alla pelle: la paura delle rappresaglie era più forte e i sassi lanciati sui giovani giocatori o i palloni requisiti servivano a dissuaderli dalla palese provocazione.
«Ho cominciato a creare piccole squadre di calcio, per permettere ai bambini di giocare – dice Waham, il presidente del club di Rabia – Anche se Daesh non era sempre presente, dovevamo stare attenti». Aitash, uno dei giovani allenatori di Rabia, se lo ricorda bene: «Volevamo essere liberi, volevamo solo giocare. Era impossibile discutere con loro, spiegargli perché il calcio non è un peccato. Alcuni residenti avevano paura dello Stato Islamico e ci gridavano che eravamo pazzi».
Sì, pazzi: anche nel lontano Ovest giungevano le notizie di attacchi dello Stato Islamico contro stadi e campi da gioco, le pene di morte inflitte per aver guardato in televisione una partita di pallone, i kamikaze esplosi dentro i club di tifosi.
Dal 2015 ad oggi è lunga la lista di stragi giustificate con la presunta peccaminosità insita nel gioco del calcio, una barbara serie inaugurata a gennaio di due anni fa dall’esecuzione nella pubblica piazza a Mosul di tredici adolescenti: sono stati scoperti a seguire la Coppa d’Asia, in tv davano Iraq-Giordania. E poi le bombe negli stadi: l’ultima e più atroce quella che a maggio 2016 ha colpito il campo di Iskandariyah, a sud di Baghdad. Ventinove morti, fatti a pezzi da un kamikaze che è entrato in campo mentre il sindaco della città consegnava la coppa ai vincitori del torneo.
La decapitazione, invece, è stata la punizione inflitta a Raqqa, “capitale” dell’autoproclamato Stato Islamico, a quattro giocatori della squadra al-Shabab: l’accusa, essere spie delle unità di difesa kurde Ypg. Sono stati uccisi di fronte a un gruppo di bambini all’inizio di luglio.
Nella visione manichea e estremista dello Stato Islamico, certe pratiche quotidiane sono violazioni della legge coranica. Un’interpretazione fallace, ma non così distante dalla dottrina wahhabista, base fondante la medievale Arabia Saudita, a cui il “califfato” si richiama: non sono mancate fatwa in merito, tra quelle che se la prendevano con i calzoncini corti dei giocatori e quelle che puntavano invece sulla competizione tra squadre, considerata potenziale finestra verso la divisione della comunità, la umma.
Vietato giocare e vietato tifare: lo scorso maggio, sedici sostenitori del Real Madrid erano nel cafè al-Furat, luogo di ritrovo dei fan della squadra spagnola, a Balad. Tre uomini armati sono entrati, hanno vomitato fuoco su di loro e li hanno ammazzati, lasciando altre 20 persone gravemente ferite.
Il simbolismo che sta dietro tanta violenza è reso più forte dal valore che lo sport ha in molti paesi del Medio Oriente: da Gerusalemme a Baghdad, da Diyarbakir ad Amman, difficile non cogliere la passione che lega ai campionati di calcio occidentali. Se fino agli anni Novanta seguivano tutti la Serie A (in Palestina, sbirciando nei saloni dei barbieri, è sorprendentemente comune vedere la foto di Dino Zoff che solleva la coppa del mondo di Spagna ’82) , le squadre italiane sono state ora soppiantate dalla Liga spagnola. Tanto che viene da pensare che la vera e più profonda divisione regionale sia tra i tifosi del Real e quelli del Barcellona. Quasi una presa di posizione politica a volte.
Ecco perché i ragazzini di Rabia, con le loro squadre clandestine, hanno compiuto un atto di resistenza. Che in qualche modo è stato premiato: la città è stata liberata 18 mesi fa dai peshmerga di Erbil e le Ypg di Rojaba e lo stadio è stato ricostruito. Dimenticata dal già lentissimo e farraginoso processo di ricostruzione, la distanza dai grandi centri iracheni e la vicinanza con la Siria (quel trovarsi a metà tra Mosul e Raqqa) hanno costretto Rabia all’oblio: dopo un anno e mezzo dalla liberazione le strade sono devastate, i palazzi portano ancora i segni dei proiettili e la moschea è danneggiata. L’ospedale (trasformato dall’Isis in magazzino di armi e già dismesso durante l’occupazione) è ancora in macerie.
Ma il campo di calcio è stato rimesso in piedi, per quel che si poteva, e subito è partita la festa: una partita di pallone per festeggiare la cacciata dell’oppressore. C’erano tutti quel giorno, racconta Abu Ahmed, famiglie intere, al lavoro non è andato nessuno: «Il calcio è una scuola di vita, i giocatori imparano l’umiltà e il rispetto, il lavoro di squadra». Ora l’allenatore del club sta cercando di usare i pochi soldi che ha disposizione per ricomprare le divise. E sogna a occhi aperti: un grande torneo regionale, qua a Rabia, la città che resiste col pallone.
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Nena News - Con la piaga dell’occupazione dello Stato Islamico di un terzo dei due paesi, i punti di riferimento geografici sono cambiati: Rabia è diventata il punto di passaggio obbligato tra Raqqa e Mosul, le due città-capitale del “califfato”, i simboli fisici delle ambizioni statuali del movimento jihadista di al-Baghdadi. Qui, dentro i confini dell’autoproclamato Stato Islamico, le imposizioni figlie di un’interpretazione volutamente distorta dell’Islam hanno colpito gli aspetti più tradizionali della vita quotidiana:
vietato ascoltare musica, immaginarsi suonarla; vietato fumare sigarette o l’amato narghilè; vietato navigare in internet.
E vietato, ovviamente, anche giocare a pallone. A Rabia il divieto è stato solo l’ultimo di tanti pugni in faccia. Lo stadio, luogo frequentato al pari di mercati all’aperto e moschee, è stato subito demolito dai voraci bulldozer islamisti. Il club locale è stato chiuso. Le divise sono state confiscate, gli islamisti si sono portati via anche le lampadine. Il buio della ragione: «Lo sport significa vita – racconta l’allenatore Abu Ahmed all’agenzia Middle East Eye – Quando Daesh ci ha detto che non avremmo più potuto giocare, ci siamo arrabbiati moltissimo. Alcuni di noi hanno pianto».
Una devastazione emotiva non indifferente per una comunità piccola, isolata, lungo la porosa e pericolosa frontiera tra Iraq e Siria, terra di contrabbando di armi e trasferimento di miliziani. La soluzione, però, è stata trovata quasi subito: giocare comunque. Giocare di nascosto, giocare in piccole squadre ufficiose, lontano dagli occhi dei censori, giocare nelle strade polverose e non sul campo dello stadio. Così tanto amato che la comunità aveva investito denaro per fornirlo di erba sintetica, senza successo: l’Isis, come Attila, si è portato via anche il prato. «Se lo saranno fumato», scherzano oggi i giovani di Rabia.
Una forma di resistenza “culturale” ai beceri diktat islamisti, di vita quotidiana. Ha coinvolto i bambini, gli adolescenti, che hanno rischiato grosso. Se non erano i miliziani dell’Isis a punirli o minacciarli di morte, le pietre a volte arrivavano dai vicini di casa. Non perché non amassero il pallone e le grida gioiose nei vicoli, ma perché tenevano di più alla pelle: la paura delle rappresaglie era più forte e i sassi lanciati sui giovani giocatori o i palloni requisiti servivano a dissuaderli dalla palese provocazione.
«Ho cominciato a creare piccole squadre di calcio, per permettere ai bambini di giocare – dice Waham, il presidente del club di Rabia – Anche se Daesh non era sempre presente, dovevamo stare attenti». Aitash, uno dei giovani allenatori di Rabia, se lo ricorda bene: «Volevamo essere liberi, volevamo solo giocare. Era impossibile discutere con loro, spiegargli perché il calcio non è un peccato. Alcuni residenti avevano paura dello Stato Islamico e ci gridavano che eravamo pazzi».
Sì, pazzi: anche nel lontano Ovest giungevano le notizie di attacchi dello Stato Islamico contro stadi e campi da gioco, le pene di morte inflitte per aver guardato in televisione una partita di pallone, i kamikaze esplosi dentro i club di tifosi.
Dal 2015 ad oggi è lunga la lista di stragi giustificate con la presunta peccaminosità insita nel gioco del calcio, una barbara serie inaugurata a gennaio di due anni fa dall’esecuzione nella pubblica piazza a Mosul di tredici adolescenti: sono stati scoperti a seguire la Coppa d’Asia, in tv davano Iraq-Giordania. E poi le bombe negli stadi: l’ultima e più atroce quella che a maggio 2016 ha colpito il campo di Iskandariyah, a sud di Baghdad. Ventinove morti, fatti a pezzi da un kamikaze che è entrato in campo mentre il sindaco della città consegnava la coppa ai vincitori del torneo.
La decapitazione, invece, è stata la punizione inflitta a Raqqa, “capitale” dell’autoproclamato Stato Islamico, a quattro giocatori della squadra al-Shabab: l’accusa, essere spie delle unità di difesa kurde Ypg. Sono stati uccisi di fronte a un gruppo di bambini all’inizio di luglio.
Nella visione manichea e estremista dello Stato Islamico, certe pratiche quotidiane sono violazioni della legge coranica. Un’interpretazione fallace, ma non così distante dalla dottrina wahhabista, base fondante la medievale Arabia Saudita, a cui il “califfato” si richiama: non sono mancate fatwa in merito, tra quelle che se la prendevano con i calzoncini corti dei giocatori e quelle che puntavano invece sulla competizione tra squadre, considerata potenziale finestra verso la divisione della comunità, la umma.
Vietato giocare e vietato tifare: lo scorso maggio, sedici sostenitori del Real Madrid erano nel cafè al-Furat, luogo di ritrovo dei fan della squadra spagnola, a Balad. Tre uomini armati sono entrati, hanno vomitato fuoco su di loro e li hanno ammazzati, lasciando altre 20 persone gravemente ferite.
Il simbolismo che sta dietro tanta violenza è reso più forte dal valore che lo sport ha in molti paesi del Medio Oriente: da Gerusalemme a Baghdad, da Diyarbakir ad Amman, difficile non cogliere la passione che lega ai campionati di calcio occidentali. Se fino agli anni Novanta seguivano tutti la Serie A (in Palestina, sbirciando nei saloni dei barbieri, è sorprendentemente comune vedere la foto di Dino Zoff che solleva la coppa del mondo di Spagna ’82) , le squadre italiane sono state ora soppiantate dalla Liga spagnola. Tanto che viene da pensare che la vera e più profonda divisione regionale sia tra i tifosi del Real e quelli del Barcellona. Quasi una presa di posizione politica a volte.
Ecco perché i ragazzini di Rabia, con le loro squadre clandestine, hanno compiuto un atto di resistenza. Che in qualche modo è stato premiato: la città è stata liberata 18 mesi fa dai peshmerga di Erbil e le Ypg di Rojaba e lo stadio è stato ricostruito. Dimenticata dal già lentissimo e farraginoso processo di ricostruzione, la distanza dai grandi centri iracheni e la vicinanza con la Siria (quel trovarsi a metà tra Mosul e Raqqa) hanno costretto Rabia all’oblio: dopo un anno e mezzo dalla liberazione le strade sono devastate, i palazzi portano ancora i segni dei proiettili e la moschea è danneggiata. L’ospedale (trasformato dall’Isis in magazzino di armi e già dismesso durante l’occupazione) è ancora in macerie.
Ma il campo di calcio è stato rimesso in piedi, per quel che si poteva, e subito è partita la festa: una partita di pallone per festeggiare la cacciata dell’oppressore. C’erano tutti quel giorno, racconta Abu Ahmed, famiglie intere, al lavoro non è andato nessuno: «Il calcio è una scuola di vita, i giocatori imparano l’umiltà e il rispetto, il lavoro di squadra». Ora l’allenatore del club sta cercando di usare i pochi soldi che ha disposizione per ricomprare le divise. E sogna a occhi aperti: un grande torneo regionale, qua a Rabia, la città che resiste col pallone.
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