Il summit internazionale è arrivato in un momento critico sia per la politica internazionale che per l'economia cinese. Molte le dichiarazioni di circostanza, con un comunicato finale come sempre più vicino al "sogno" che alla veglia, sottolineando i legami tra "riforme strutturali, commercio, investimenti e Pil". Ratificato l'accordo di Parigi sulle emissioni anche da Stati Uniti e Cina, mentre la Francia inserisce una blacklist dei paradisi fiscali.
di Lorenzo Carchini
Si è aperto domenica il G20 di Hangzhou, una delle sette capitali storiche della Cina. Un summit atteso più per la location che non per l'effettivo contenuto dei temi che si sono andati ad affrontare. È infatti la prima volta che il colosso asiatico ospita fra i grandi della Terra e Pechino, sin da Brisbane nel 2014, aveva proclamato la sfida dell'innalzamento del Pil globale di due punti percentuali in cinque anni
.
Un obiettivo fallito in partenza. L'incontro è avvenuto in un clima tutt'altro che tranquillo; da un lato, il rallentamento dell'economia dell'ex Celeste Impero e l'ingigantirsi del suo debito ha cominciato ad essere oggetto di chiacchiere nei corridoi, dall'altro l'Occidente vive una congiuntura economica, sociale e politica assai complessa, con Europa e Stati Uniti presi da campagne elettorali in corso, fallimento del TTip, crisi turca, Brexit ed emergenza immigrati.
Sono mancati, così, gli ingredienti principali per rendere l'incontro anche soltanto "utile". L'Italia, dal canto suo, ha mostrato sin da subito scarso interesse, inviando ai vari incontri tenutisi nel corso del 2016 figure affatto di spicco o competenti nel settore (si veda l'invio di Scalfarotto al summit sul commercio o l'assenza del Ministro all'Agricoltura Martina, impegnato alla corsa al sindaco di Milano).
Questo G20, che si era prefissato di discutere di liberalizzare i mercati dei beni e dei servizi, per creare un ambiente favorevole al business, è stato al contrario un'esposizione delle diverse ricette protezionistiche in giro nel pianeta. Un processo che non esclude neppure Pechino, accusata di aver provocato il collasso del settore dell’acciaio per aiutare i propri colossi pubblici della siderurgia, responsabili per la sovrapproduzione. Le accuse sono arrivate dalle stesse imprese europee che operano sul mercato, denunciando le misure di protezionismo non dichiarato con cui le autorità di Pechino favoriscono sistematicamente le imprese nazionali.
L'idea è che questo incontro abbia costituito la presa d'atto di un sistema globalizzato che non ha affatto ridotto le diseguaglianze, bensì le ha aumentate ed è così che acquista un senso la volontà della Francia di inserire la blacklist dei paradisi fiscali all'interno del documento conclusivo. Una scelta giusta, ma che suggerisce il completo fallimento di questo primo ventennio "globalizzato", in cui i principi sanciti sulla carta sono stati prontamente traditi alla prova dei fatti.
Un peccato, perché si sarebbe potuto parlare del primo summit in cui ridiscutere la governance mondiale, almeno dal punto di vista del sistema bancario internazionale. La questione è quella delle quote del Fondo Monetario Internazionale, da rivedere ogni 5 anni, per le quali gli USA si oppongono a qualsiasi cambiamento dal 2011. In ballo c'è il finanziamento delle istituzioni internazionali, in un momento in cui tutti stringono il cordone della borsa mentre qualcuno ha invece più liquidità disponibile. La carta da giocare per il resto del mondo è la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), alla quale anche il Canada ha chiesto di partecipare e che vede escluse (e scontente) proprio America e Giappone.
di Lorenzo Carchini
Si è aperto domenica il G20 di Hangzhou, una delle sette capitali storiche della Cina. Un summit atteso più per la location che non per l'effettivo contenuto dei temi che si sono andati ad affrontare. È infatti la prima volta che il colosso asiatico ospita fra i grandi della Terra e Pechino, sin da Brisbane nel 2014, aveva proclamato la sfida dell'innalzamento del Pil globale di due punti percentuali in cinque anni
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Un obiettivo fallito in partenza. L'incontro è avvenuto in un clima tutt'altro che tranquillo; da un lato, il rallentamento dell'economia dell'ex Celeste Impero e l'ingigantirsi del suo debito ha cominciato ad essere oggetto di chiacchiere nei corridoi, dall'altro l'Occidente vive una congiuntura economica, sociale e politica assai complessa, con Europa e Stati Uniti presi da campagne elettorali in corso, fallimento del TTip, crisi turca, Brexit ed emergenza immigrati.
Sono mancati, così, gli ingredienti principali per rendere l'incontro anche soltanto "utile". L'Italia, dal canto suo, ha mostrato sin da subito scarso interesse, inviando ai vari incontri tenutisi nel corso del 2016 figure affatto di spicco o competenti nel settore (si veda l'invio di Scalfarotto al summit sul commercio o l'assenza del Ministro all'Agricoltura Martina, impegnato alla corsa al sindaco di Milano).
Questo G20, che si era prefissato di discutere di liberalizzare i mercati dei beni e dei servizi, per creare un ambiente favorevole al business, è stato al contrario un'esposizione delle diverse ricette protezionistiche in giro nel pianeta. Un processo che non esclude neppure Pechino, accusata di aver provocato il collasso del settore dell’acciaio per aiutare i propri colossi pubblici della siderurgia, responsabili per la sovrapproduzione. Le accuse sono arrivate dalle stesse imprese europee che operano sul mercato, denunciando le misure di protezionismo non dichiarato con cui le autorità di Pechino favoriscono sistematicamente le imprese nazionali.
L'idea è che questo incontro abbia costituito la presa d'atto di un sistema globalizzato che non ha affatto ridotto le diseguaglianze, bensì le ha aumentate ed è così che acquista un senso la volontà della Francia di inserire la blacklist dei paradisi fiscali all'interno del documento conclusivo. Una scelta giusta, ma che suggerisce il completo fallimento di questo primo ventennio "globalizzato", in cui i principi sanciti sulla carta sono stati prontamente traditi alla prova dei fatti.
Un peccato, perché si sarebbe potuto parlare del primo summit in cui ridiscutere la governance mondiale, almeno dal punto di vista del sistema bancario internazionale. La questione è quella delle quote del Fondo Monetario Internazionale, da rivedere ogni 5 anni, per le quali gli USA si oppongono a qualsiasi cambiamento dal 2011. In ballo c'è il finanziamento delle istituzioni internazionali, in un momento in cui tutti stringono il cordone della borsa mentre qualcuno ha invece più liquidità disponibile. La carta da giocare per il resto del mondo è la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), alla quale anche il Canada ha chiesto di partecipare e che vede escluse (e scontente) proprio America e Giappone.
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