Col governo Gentiloni si va ben più in là della continuità. La politica italiana alla bassa marea.
di Lorenzo Carchini
Altro giro, altra corsa. Con la proclamazione del governo Gentiloni comincia la supplenza. Un esecutivo raffazzonato, creato nel tempo di un fine settimana, a scadenza incerta. Cinque spostamenti, Boschi, Lotti, De Vincenti, Minniti e soprattutto Alfano, molte le conferme (dodici), Padoan, Calenda, Orlando, Pinotti, Delrio, Franceschini, Poletti, Martina, Madia, Galletti, Lorenzin e Costa, due new entry, Fedeli e Finocchiaro, una sola vittima sacrificale, la Giannini.
Uno solo, però, il grande assente. Lui, Matteo Renzi. Questo è ancora il suo governo e la scelta del suo ex ministro degli Esteri ne è la conferma. Dall'irrituale prova di forza di domenica scorsa, quando decise di presentare le dimissioni a spoglio in corso e fare tutta sua la sconfitta, dimostrandosi unica testa a capo della "chimera del Sì", la partita è andata nella sola direzione che ha voluto lui. Prima, il ritiro a Pontassieve, giusto il tempo per una foto di famiglia, poi il ritorno a Roma, per indicare Gentiloni e rilanciare la corsa nella Direzione Pd di ieri.
In questo modo, da oggi, un'altra stagione politica, chiamiamola "estate del renzismo", arriva alla conclusione. Il governo crepuscolare appena nominato non porta il suo nome, ma ha dentro tutta la sua squadra. Una situazione che, se possibile, mette ulteriormente in risalto l'assenza del direttore d'orchestra. I primi segnali lasciano qualche perplessità. La prima grana è l'accordo con Verdini. Vedremo se sulla questione ci si avviterà quando quei diciotto senatori serviranno per avere una maggioranza.
Renzi ha salutato, ma è stato un arrivederci a presto, prestissimo. Nel Pd, intanto, il progressivo snaturamento ha portato ad un profondo cambiamento d'identità. Nella Direzione di ieri, come in quella della scorsa settimana, è mancato il momento politicamente più significativo: l'analisi. Che si sia perso - stra-perso - un referendum costituzionale che era anche un voto sull'operato del premier-segretario non importa se non ne consegue una spinta sempre in avanti (verso dove, non ci è dato saperlo). Una brutta abitudine che chi segue da tempo le vicende del centrosinistra ha visto svilupparsi negli anni.
Al Pd serve un Congresso, ma non un'arena elettorale nella quale Renzi, Rossi o Emiliano si vadano a mettere in prima fila, né un palcoscenico in cui pugnalarsi alle spalle, men che meno un'altra Leopolda. Una seduta in cui si arrivi a dare delle risposte. Perché il Sì ha perso? Perché la sconfitta è arrivata dalle periferie? Perché l'attuale segretario del partito non riesce ad attecchire al Sud? In ultimo, che Italia stiamo immaginando? Renzi, infatti, è il primo ad aver bisogno di capire quel che il paese gli chiedeva e lui, il suo governo e il suo partito non sono stati in grado di sentire e comprendere.
La campagna del Sì non è, infatti, stata capace di dire in che direzione si sarebbe andati. La spinta propulsiva in avanti ha senso solo se si ha un'idea della destinazione. La scelta del No, in maniera più o meno indiretta, è legata a questo ed al ruolo che l'ex premier aveva deciso di ritagliarsi sin dall'inizio: il sindaco d'Italia. Tutti sappiamo cosa fa un sindaco. Amministra. Sappiamo anche quello che non fa. Prospetta. In tre parole: non fa politica. La politica non è lanciare due o tre parole chiave o fare uno streaming, bensì proporre un'idea corposa, complessa e partecipativa di società. Non solo, ma si tratta anche di dare a quest'idea una tridimensionalità, fatta di indirizzi, destinazioni future, tappe.
Renzi, e prima di lui Berlusconi, hanno sdoganato in Italia il concetto di "blitz", prestandolo alla politica. Azione, non riflessione. Agire a velocità doppia, imporre un ritmo che non permetta alcuna sosta. Non importa dove si finirà - giacché la corsa non finirà mai - l'importante è correre, azzardare, indicare una direzione ed un secondo dopo dire di averla raggiunta. Muoversi come un ammaestratore del circo nella gabbia coi leoni. Giocarsi l'intera posta sapendo che il casinò Italia continuerà a far credito, anche al peggiore dei perdenti.
di Lorenzo Carchini
Altro giro, altra corsa. Con la proclamazione del governo Gentiloni comincia la supplenza. Un esecutivo raffazzonato, creato nel tempo di un fine settimana, a scadenza incerta. Cinque spostamenti, Boschi, Lotti, De Vincenti, Minniti e soprattutto Alfano, molte le conferme (dodici), Padoan, Calenda, Orlando, Pinotti, Delrio, Franceschini, Poletti, Martina, Madia, Galletti, Lorenzin e Costa, due new entry, Fedeli e Finocchiaro, una sola vittima sacrificale, la Giannini.
Uno solo, però, il grande assente. Lui, Matteo Renzi. Questo è ancora il suo governo e la scelta del suo ex ministro degli Esteri ne è la conferma. Dall'irrituale prova di forza di domenica scorsa, quando decise di presentare le dimissioni a spoglio in corso e fare tutta sua la sconfitta, dimostrandosi unica testa a capo della "chimera del Sì", la partita è andata nella sola direzione che ha voluto lui. Prima, il ritiro a Pontassieve, giusto il tempo per una foto di famiglia, poi il ritorno a Roma, per indicare Gentiloni e rilanciare la corsa nella Direzione Pd di ieri.
In questo modo, da oggi, un'altra stagione politica, chiamiamola "estate del renzismo", arriva alla conclusione. Il governo crepuscolare appena nominato non porta il suo nome, ma ha dentro tutta la sua squadra. Una situazione che, se possibile, mette ulteriormente in risalto l'assenza del direttore d'orchestra. I primi segnali lasciano qualche perplessità. La prima grana è l'accordo con Verdini. Vedremo se sulla questione ci si avviterà quando quei diciotto senatori serviranno per avere una maggioranza.
Renzi ha salutato, ma è stato un arrivederci a presto, prestissimo. Nel Pd, intanto, il progressivo snaturamento ha portato ad un profondo cambiamento d'identità. Nella Direzione di ieri, come in quella della scorsa settimana, è mancato il momento politicamente più significativo: l'analisi. Che si sia perso - stra-perso - un referendum costituzionale che era anche un voto sull'operato del premier-segretario non importa se non ne consegue una spinta sempre in avanti (verso dove, non ci è dato saperlo). Una brutta abitudine che chi segue da tempo le vicende del centrosinistra ha visto svilupparsi negli anni.
Al Pd serve un Congresso, ma non un'arena elettorale nella quale Renzi, Rossi o Emiliano si vadano a mettere in prima fila, né un palcoscenico in cui pugnalarsi alle spalle, men che meno un'altra Leopolda. Una seduta in cui si arrivi a dare delle risposte. Perché il Sì ha perso? Perché la sconfitta è arrivata dalle periferie? Perché l'attuale segretario del partito non riesce ad attecchire al Sud? In ultimo, che Italia stiamo immaginando? Renzi, infatti, è il primo ad aver bisogno di capire quel che il paese gli chiedeva e lui, il suo governo e il suo partito non sono stati in grado di sentire e comprendere.
La campagna del Sì non è, infatti, stata capace di dire in che direzione si sarebbe andati. La spinta propulsiva in avanti ha senso solo se si ha un'idea della destinazione. La scelta del No, in maniera più o meno indiretta, è legata a questo ed al ruolo che l'ex premier aveva deciso di ritagliarsi sin dall'inizio: il sindaco d'Italia. Tutti sappiamo cosa fa un sindaco. Amministra. Sappiamo anche quello che non fa. Prospetta. In tre parole: non fa politica. La politica non è lanciare due o tre parole chiave o fare uno streaming, bensì proporre un'idea corposa, complessa e partecipativa di società. Non solo, ma si tratta anche di dare a quest'idea una tridimensionalità, fatta di indirizzi, destinazioni future, tappe.
Renzi, e prima di lui Berlusconi, hanno sdoganato in Italia il concetto di "blitz", prestandolo alla politica. Azione, non riflessione. Agire a velocità doppia, imporre un ritmo che non permetta alcuna sosta. Non importa dove si finirà - giacché la corsa non finirà mai - l'importante è correre, azzardare, indicare una direzione ed un secondo dopo dire di averla raggiunta. Muoversi come un ammaestratore del circo nella gabbia coi leoni. Giocarsi l'intera posta sapendo che il casinò Italia continuerà a far credito, anche al peggiore dei perdenti.
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