Chiesa e diritto penale nell’era di papa Francesco: alla riscoperta della dimensione politica e istituzionale del perdono
Nella “Lettera ai partecipanti al XIX Congresso Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia” (Vaticano, 30 maggio 2014) e nel “Discorso” pronunciato in occasione dell’Udienza a una Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale il 23 ottobre 2014, il Papa, proseguendo lungo il solco tracciato dall’insegnamento tradizionale della Chiesa, propone ai penalisti una visione rinnovata del diritto criminale improntata all’ideale della giustizia riparativa e riconciliativa.
La riflessione della Chiesa sulla pena non può prescindere da una considerazione preliminare sul bene comune e sul concetto di autorità. Come ci ricorda papa Giovanni XXIII nell’Enciclica “Pacem in terris” (§46), “La convivenza tra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità legittima che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente”. In tal modo, il fondamento morale dell’autorità costituita viene individuato nella necessità di una società ben ordinata capace di garantire l’attuazione del bene comune al di là degli egoismi dei singoli. E una tale autorità – sottolinea San Paolo nel capitolo 13 della Lettera ai Romani – viene da Dio.
Il bene comune, inoltre, suppone che “l’autorità garantisca, con mezzi onesti, la sicurezza della società e quella dei suoi membri. Esso fonda il diritto alla legittima difesa personale e collettiva” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1909), al quale si può ricondurre il diritto dell’autorità di punire, sanzionando penalmente le condotte più gravemente lesive del bene comune. La punizione del reo, d’altronde, non si può contrapporre in via di principio al comandamento dell’amore, dal momento che, come ci ricorda la Sacra Scrittura, “il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio” (Proverbi 3, 12). E ancora San Paolo sottolinea, quasi a presagire quella “funzione rieducativa della pena” su cui si fondano i sistemi giuridici più moderni e avveduti, come “In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (Eb 12, 11).
Importanti precisazioni sulla funzione della pena e sulle finalità del sistema penitenziario provengono dagli insegnamenti di papa Francesco, da sempre attento alla condizione esistenziale dei detenuti, come del resto ha ampiamente dimostrato fin dall’inizio del suo pontificato. Così, nella “Lettera ai partecipanti al XIX Congresso Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia” (Vaticano, 30 maggio 2014 qui), Francesco rileva che “Il Signore ha poco a poco insegnato al suo popolo che esiste un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena, che non si pone rimedio a un occhio o un dente rotto rompendone un altro. Si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.
Il che impone di riconsiderare in termini di maggiore mitezza lo stesso principio di proporzionalità tra delitto e pena, il quale non può non tenere conto di questa intrinseca “asimmetria” tra la gravità del delitto e l’entità della pena, a meno che non si voglia ritornare alla legge arcaica del taglione.
La stessa esigenza di riparazione, insita nella pena, secondo il Papa non può identificarsi solo con il castigo, se non a costo di “confondere la giustizia con la vendetta, il che contribuirebbe solo ad accrescere la violenza, pur se istituzionalizzata”. “L’esperienza – continua il Papa – ci dice che l’aumento e l’inasprimento delle pene spesso non risolvono i problemi sociali, e non riescono neppure a far diminuire i tassi di criminalità. E inoltre si possono generare gravi problemi per la società, come sono le carceri sovrappopolate e le persone detenute senza condanna”.
Da qui il monito – ancor più esplicito nel “Discorso” pronunciato in occasione dell’Udienza a una Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale il 23 ottobre 2014 – contro l’incitamento alla violenza e alla vendetta pubblica e privata (di cui si rendono sovente responsabili alcuni settori della politica e alcuni mezzi di comunicazione) “contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge” e contro il “populismo penale”, ossia contro “la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali”, come se “mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale”.
Il che porta il Santo Padre a porsi in termini dubitativi circa l’efficacia preventiva della pena (e precisamente la finalità di prevenzione generale, fondata sull’assunto tradizionale che la minaccia della pena serva a distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi, operando da controspinta psicologica alla commissione di delitti) che “fino ad ora – ammette – non si è potuto verificare neppure per le pene più gravi, come la pena di morte” e a suggerire il principio-guida della cautela in poenam secondo la concezione moderna del diritto penale come extrema ratio, “come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione”.
Nello stesso “Discorso”, il Papa, dopo aver ribadito la ferma condanna della pena di morte e il ripudio dell’ergastolo in quanto “pena di morte nascosta” (che ricorda essere stata abolita, da poco tempo, nel Codice penale del Vaticano, che per il resto ricalca la legislazione penale italiana) e aver denunciato il grave fenomeno, particolarmente diffuso in alcuni Paesi e regioni del mondo, dell’abuso della carcerazione preventiva e dei detenuti senza condanna o senza giudizio, addita quale forma di tortura contraria al principio pro homine (vale a dire, della dignità della persona umana sopra ogni cosa) la reclusione in carceri di massima sicurezza la cui principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno, fonte di “sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso” le quali “incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”.
Ma degna di menzione è soprattutto la decisa presa di posizione di Francesco in favore di un modello di giustizia “riparativa” o “riconciliativa” che inglobi e superi il tradizionale – e ancor oggi prevalente – modello della giustizia retributiva e che sia capace di elevare il perdono dalla sfera puramente privata ad una dimensione politica e istituzionale. “Mi sembra che sia qui – sostiene papa Francesco nella “Lettera ai partecipanti al XIX Congresso Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia” sopraccitata – la grande sfida, che tutti insieme dobbiamo affrontare, affinché le misure adottate contro il male non si accontentino di reprimere, dissuadere e isolare quanti lo hanno causato, ma li aiutino anche a riflettere, a percorrere i sentieri del bene, a essere persone autentiche che, lontane dalle proprie miserie, diventino esse stesse misericordiose. Pertanto, la Chiesa propone una giustizia che sia umanizzatrice, genuinamente riconciliatrice, una giustizia che porti il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità […] Che bello sarebbe se si compissero i passi necessari affinché il perdono non restasse unicamente nella sfera privata, ma raggiungesse una vera dimensione politica e istituzionale per creare così rapporti di convivenza armoniosi”.
Un ideale, quello appena delineato, che rispecchia la visione del Papa in merito alla (inter-)relazione tra giustizia e perdono, come approfondita nel corso dell’Anno Santo della misericordia da poco trascorso, dovendosi ritenere che “La misericordia – come sottolineato nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia “Misericordiae Vultus” (nn. 20-21) – non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi […] Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono” , poiché, in definitiva, “Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia”.
di Bartolo Salone
La riflessione della Chiesa sulla pena non può prescindere da una considerazione preliminare sul bene comune e sul concetto di autorità. Come ci ricorda papa Giovanni XXIII nell’Enciclica “Pacem in terris” (§46), “La convivenza tra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità legittima che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente”. In tal modo, il fondamento morale dell’autorità costituita viene individuato nella necessità di una società ben ordinata capace di garantire l’attuazione del bene comune al di là degli egoismi dei singoli. E una tale autorità – sottolinea San Paolo nel capitolo 13 della Lettera ai Romani – viene da Dio.
Il bene comune, inoltre, suppone che “l’autorità garantisca, con mezzi onesti, la sicurezza della società e quella dei suoi membri. Esso fonda il diritto alla legittima difesa personale e collettiva” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1909), al quale si può ricondurre il diritto dell’autorità di punire, sanzionando penalmente le condotte più gravemente lesive del bene comune. La punizione del reo, d’altronde, non si può contrapporre in via di principio al comandamento dell’amore, dal momento che, come ci ricorda la Sacra Scrittura, “il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio” (Proverbi 3, 12). E ancora San Paolo sottolinea, quasi a presagire quella “funzione rieducativa della pena” su cui si fondano i sistemi giuridici più moderni e avveduti, come “In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (Eb 12, 11).
Il che impone di riconsiderare in termini di maggiore mitezza lo stesso principio di proporzionalità tra delitto e pena, il quale non può non tenere conto di questa intrinseca “asimmetria” tra la gravità del delitto e l’entità della pena, a meno che non si voglia ritornare alla legge arcaica del taglione.
La stessa esigenza di riparazione, insita nella pena, secondo il Papa non può identificarsi solo con il castigo, se non a costo di “confondere la giustizia con la vendetta, il che contribuirebbe solo ad accrescere la violenza, pur se istituzionalizzata”. “L’esperienza – continua il Papa – ci dice che l’aumento e l’inasprimento delle pene spesso non risolvono i problemi sociali, e non riescono neppure a far diminuire i tassi di criminalità. E inoltre si possono generare gravi problemi per la società, come sono le carceri sovrappopolate e le persone detenute senza condanna”.
Da qui il monito – ancor più esplicito nel “Discorso” pronunciato in occasione dell’Udienza a una Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale il 23 ottobre 2014 – contro l’incitamento alla violenza e alla vendetta pubblica e privata (di cui si rendono sovente responsabili alcuni settori della politica e alcuni mezzi di comunicazione) “contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge” e contro il “populismo penale”, ossia contro “la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali”, come se “mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale”.
Il che porta il Santo Padre a porsi in termini dubitativi circa l’efficacia preventiva della pena (e precisamente la finalità di prevenzione generale, fondata sull’assunto tradizionale che la minaccia della pena serva a distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi, operando da controspinta psicologica alla commissione di delitti) che “fino ad ora – ammette – non si è potuto verificare neppure per le pene più gravi, come la pena di morte” e a suggerire il principio-guida della cautela in poenam secondo la concezione moderna del diritto penale come extrema ratio, “come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione”.
Nello stesso “Discorso”, il Papa, dopo aver ribadito la ferma condanna della pena di morte e il ripudio dell’ergastolo in quanto “pena di morte nascosta” (che ricorda essere stata abolita, da poco tempo, nel Codice penale del Vaticano, che per il resto ricalca la legislazione penale italiana) e aver denunciato il grave fenomeno, particolarmente diffuso in alcuni Paesi e regioni del mondo, dell’abuso della carcerazione preventiva e dei detenuti senza condanna o senza giudizio, addita quale forma di tortura contraria al principio pro homine (vale a dire, della dignità della persona umana sopra ogni cosa) la reclusione in carceri di massima sicurezza la cui principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno, fonte di “sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso” le quali “incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”.
Ma degna di menzione è soprattutto la decisa presa di posizione di Francesco in favore di un modello di giustizia “riparativa” o “riconciliativa” che inglobi e superi il tradizionale – e ancor oggi prevalente – modello della giustizia retributiva e che sia capace di elevare il perdono dalla sfera puramente privata ad una dimensione politica e istituzionale. “Mi sembra che sia qui – sostiene papa Francesco nella “Lettera ai partecipanti al XIX Congresso Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia” sopraccitata – la grande sfida, che tutti insieme dobbiamo affrontare, affinché le misure adottate contro il male non si accontentino di reprimere, dissuadere e isolare quanti lo hanno causato, ma li aiutino anche a riflettere, a percorrere i sentieri del bene, a essere persone autentiche che, lontane dalle proprie miserie, diventino esse stesse misericordiose. Pertanto, la Chiesa propone una giustizia che sia umanizzatrice, genuinamente riconciliatrice, una giustizia che porti il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità […] Che bello sarebbe se si compissero i passi necessari affinché il perdono non restasse unicamente nella sfera privata, ma raggiungesse una vera dimensione politica e istituzionale per creare così rapporti di convivenza armoniosi”.
Un ideale, quello appena delineato, che rispecchia la visione del Papa in merito alla (inter-)relazione tra giustizia e perdono, come approfondita nel corso dell’Anno Santo della misericordia da poco trascorso, dovendosi ritenere che “La misericordia – come sottolineato nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia “Misericordiae Vultus” (nn. 20-21) – non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi […] Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono” , poiché, in definitiva, “Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia”.
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